Domenicale, 12 febbraio 2023
Biografia di André Malraux
Gli intimi osservavano stupiti André Malraux interrompere la sua torrenziale conversazione per estrarre dalla tasca un quadernino su cui annotava qualcosa. Poi confessava: «Tutto quello che faccio mi annoia! Tranne le “Antimemorie” (…) D’altronde cosa ho fatto? Qualche libro e delle cose sull’arte».
Le aveva chiamate così in opposizione alle celebri Memorie d’oltretomba di Chateaubriand, che detestava come detestava l’uomo per la sua pomposità e il suo arrivismo. Ma anche perché, malgrado la sua memoria prodigiosa, il passato non lo attraeva. «La mia vita non mi interessa... Non ricordo la mia infanzia. Non ricordo nemmeno, senza concentrarmi, le donne che ho amato o creduto di amare, gli amici morti».
Di tanto intanto chiedeva: «Sarebbe ridicolo se dicessi “io”? se scrivessi in prima persona?». Poi, rassicurato proseguiva, dando alla luce un’opera magnifica e indefinibile in cui realtà e fantasia, arte e storia si mescolavano e si sovrapponevano arricchendosi reciprocamente. In queste pagine i grandi della terra e i dannati dei campi di concentramento, Canton e la guerra di Spagna stanno gomito a gomito con i templi indiani senza dare il minimo capogiro.
Non era tutto nuovo: parti di altre opere erano state chiamate a inserirsi in quel turbine fastoso. A chi gli chiedeva come definire quell’opera indefinibile, spiegava: «Mi limito a proseguire una meditazione che, a un certo momento, ha preso la forma del romanzo. O, se volete, continuo a fare una sorta di romanzo d’avventure, il romanzo metafisico dell’arte». Malraux non mentiva, ma ricreava eventi e incontri, senza rinunciare all’ironia. In India, racconta, quando Nehru gli aveva detto sorridendo della sua veste ufficiale: «Così, eccola ministro...», Malraux aveva ribattuto: «Mallarmé raccontava una storia: una notte ascolta i gatti che conversano in una grondaia. Un gatto nero inquisitore chiede al suo gatto, un bravo micione casalingo: “E tu cosa fai?”. “In questo momento faccio finta di essere il gatto da Mallarmé”».
Erano dieci anni che non usciva un suo libro. Difficile, quasi impossibile, oggi, capire l’estensione della fama di Malraux. Per il pubblico era un monumento vivente, nei primi giorni di uscita si erano vendute 200mila copie
La sua generosità era sconfinata. Quando uno sconosciuto, destinato a diventare famoso, gli aveva scritto per ringraziarlo di averlo aiutato a pubblicare, il ministro gli aveva risposto: «Sono io che la ringrazio per avermi dato l’occasione, almeno una volta, di rendere l’universo meno stupido».
Malraux non amava se stesso; secondo Morand era un «suicidato vivente» che cercava di distrarsi dall’angoscia tenendosi occupato, tuttavia restava sempre una distanza invalicabile anche con gli intimi. Si definiva «un agnostico avido di trascendenza, che non ha avuto rivelazioni», ma parlava con passione del destino come un credente parlerebbe di Dio. In realtà, per Malraux c’era qualcosa di molto simile a una divinità, De Gaulle, che per lui aveva sempre ragione. Il suo coraggio era sconfinato. «Il coraggio di Malraux – si diceva – è scoraggiante». Quando, nel libro, cercava di analizzarlo, raccontando dell’esecuzione simulata dai nazisti, lo riduceva «una conseguenza curiosa e banale del senso di invulnerabilità». Durante l’occupazione tedesca, l’auto in cui trasportava un ufficiale alleato era incappata in una colonna nemica. Quando i soldati gli avevano ingiunto di fermarsi, aveva detto: «Lasciatemi passare, sono Malraux!» e i tedeschi si erano fatti da parte.
Anche se a tratti sembrava un mitomane pronto a trasfigurare la storia, che per lui era l’ultima incarnazione del destino nella società contemporanea, Malraux aveva vissuto quello che i suoi contemporanei avevano solo scritto o sognato. Aveva pubblicato libri erotici e aveva tentato di rubare le sculture di un tempio cambogiano, era stato incarcerato e aveva diretto un giornale rivoluzionario, aveva partecipato alla guerra di Spagna ed era sfuggito due volte alla prigionia tedesca, aveva avuto un ruolo eminente nella resistenza ed era diventato ministro. Era stato di estrema sinistra, guadagnandosi il soprannome di «Il Saint-Just dell’antifascismo» e per poi passare a destra, diventando gollista. Anche se non l’aveva preso/ucciso, la morte non l’aveva certo risparmiato. Suo padre si era suicidato, i suoi due fratelli erano morti in guerra, la sua seconda moglie era stata maciullata da un treno, i suoi due figli erano morti in un incidente stradale. Ma lui era sopravvissuto e aveva continuato ad agire. Anche se oscillava tra «Chi ha fatto quanto me?» e «Io sono inutile».
Nell’anno in cui era uscito il libro, il 1967, aveva ritrovato un amore del passato, una grande seduttrice, Louise de Vilmorin. A 65 anni Louise era ancora bella e sottile, i suoi occhi viola sollevavano ancora passioni che lei soddisfaceva generosamente, anche se il sesso era la parte che le piaceva di meno della seduzione. Deliziosa scrittrice, era tornata a vivere a fianco di quell’uomo semplice e strano, gelido e ardente. Grande conversatrice, sapendo che lui era in grado di parlare per ore senza interrompersi, gli lasciava volentieri il palcoscenico. Intuiva che la sua logorrea era un argine continuamente ricostruito contro l’angoscia. «Considerando l’uomo enigmatico, non mi sento a mio agio nell’intelligibile». Poi la morte aveva ripreso il suo lavoro Louise era morta improvvisamente e lui aveva continuato a vivere e a lavorare cercando di morire da vivo perché solo «la morte trasforma la vita in destino».