la Repubblica, 12 febbraio 2023
Intervista allo storico Andrea Graziosi
«Guardare la realtà può essere doloroso. Anche perché si tratta di dichiarare morto il nostro mondo, quello in cui ci siamo formati. E insieme dobbiamo prendere atto che certe categorie interpretative sono sfocate, quindi non più capaci di vedere il nuovo che è sotto i nostri occhi». L’ultimo saggio di Andrea Graziosi, il più autorevole storico italiano dell’Unione Sovietica, si propone di analizzare il passaggio d’epoca di cui siamo stati distratti protagonisti, mettendoci a disposizione una nuova cassetta degli attrezzi. Sin dal titolo declinato al plurale,Occidenti e modernità , è dichiarata l’ambizione di inquadrare dentro concetti storiografici innovativi i processi degli ultimi decenni e quel “mondo nuovo” che a lungo ci siamo rifiutati di vedere perché — dice lo storico — vediamo con facilità solo ciò di cui abbiamo già coscienza. «Personalmente ho avvertito la rottura culturale negli anni Novanta, quando mi sentivo più vicino alla generazione di mio padre che a quella delle mie figlie», racconta Graziosi che è nato alla metà dei Cinquanta. «In realtà le radici di quel mutamento risalgono agli anni Settanta del secolo scorso e questo rende ancora più paradossale la nostra condizione: viviamo già da mezzo secolo in un mondo nuovo, facendo finta che quasi nulla sia cambiato».
Lei dichiara morto il nostro Occidente, quello nato nel 1945 dalla convergenza tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti d’America.
«Non direi che è finito, ma certo si va lentamente disgregando il blocco scaturito dall’adesione dei principali paesi dell’Europa occidentale al progetto guidato dagli americani.
L’Unione Europea s’è felicemente allargata fino a includere larga parte dei paesi dell’Est. E l’America ha smesso da tempo di essere un’Europa fuori d’Europa, ossia una terra culturalmente ed etnicamente europea perché approdo di migrazioni occidentali: dagli anni Sessanta sono cominciati ad arrivare asiatici, africani, latinoamericani. Ma l’Occidente è più di questo: è una categoria intellettuale, quindi mobile sul piano geografico e storico. Ne abbiamo conosciuto incarnazioni diverse, dal mondo ateniese a quello di cui Spengler vedeva il tramonto alla fine della Grande Guerra».
La sua analisi sulla disgregazione del nostro Occidente non rischia di chiuderlo dentro un perimetro etnico?
«No, proprio perché Occidente è un concetto intellettuale e quindi generalmente umano, legato a diverse declinazioni dell’idea della libertà e della dignità. Questo naturalmente non deve nascondere il fatto che quello da noi conosciuto dopo il 1945 è stato un Occidente “bianco”, allargatosi però verso l’Asia della Corea del Sud e del Giappone, e non solo».
Ma “mondo bianco” è una categoria spendibile?
«Il resto del mondo pensa a noi in questo modo, ma noi facciamo finta che questa distinzione non esista. E aggiungo: poiché abbiamo dominatoper svariati secoli, le nostre difficoltà generano sì depressione al nostro interno, ma non all’esterno, dove c’è chi, pur non amandolo, vede in Putin un utile strumento per ridimensionarci».
Lei fa coincidere il declino del nostro Occidente con la crisi del “moderno maggiore”. Che cosa intende?
«È la modernità cresciuta negli Stati Uniti e poi diffusa nell’Europa occidentale: quella del benessere, dei consumi, del miglioramento continuo garantito. Il progresso sembrava non avere fine. Lo storico Pierre Chaunu, alla metà degli anni Settanta, lo sintetizzò in questo modo: “Più cibo, più abitazioni, più libri, più vita, più uomini, una vecchiaia più lunga, una natura meglio dominata dall’uomo”.
Intendiamoci, anche la società sovietica dopo Stalin ha conosciuto un suo progresso, ma molto piùlimitato: negli anni Ottanta la speranza di vita degli uomini era 20 anni inferiore alla nostra. Per questo la indico come una “modernità minore”».
Ma dalla società del benessere — è la sua tesi — scaturiscono elementi di crisi che porteranno questo evo moderno alla maturità, cioè al mondo in cui viviamo. Che cosa succede?
«Abbiamo smesso di fare figli e, grazie alle conquiste scientifiche, viviamo molto più a lungo: sono questi i due motori della trasformazione che ha reso le nostre società più vecchie e meno vitali. L’arresto della crescita demografica ha ridotto il peso dell’Europa e del nostro “mondo bianco”. Quando io sono nato, l’Africa aveva meno della metà degli abitanti dell’Europa: oggi ne ha quasi il doppio e dovrebbe averne il triplo alla fine degli anni Trenta. Tutto questo ha generato reazioni di rivincita e dirivalsa: penso al grido di Trump “Make America Great Again”, o al sogno di rinnovata grandezza dell’Inghilterra con la Brexit e — in forma ancora più avvelenata — a Putin che cerca un nuovo, grande mondo russo».
La reazione di rivalsa al tramonto può essere nazionale, ma anche individuale. Lei tratteggia ampi bacini di reazionari naturali che crescono nelle nostre società.
«Sì, ma sono reazionari molto diversi da quelli tradizionali, come i difensori dell’aristocrazia e dei suoi privilegi.
Sono i milioni di anziani che in Italia vivono da soli e all’immaginazione del futuro preferiscono la commemorazione. Sono le signore delle pulizie che temono gli immigrati o i ceti marginalizzati che competonocon i rom per l’assegnazione delle case popolari.
Sono le persone fragili che subiscono le “società plurali” e tecnologiche come una vessazione quotidiana.
Tutta gente che va ascoltata e con la quale bisogna parlare: questo è il compito della politica».
Non aiuta il fatto che la popolazione sia invecchiata.
«Siamo per questo prigionieri dell’utopia del passato. E il passato che in Italia rimpiangiamo è quello dei miracoli del secondo dopoguerra, quindi impossibile da riproporre.
Sapevamo che l’onda che aveva spinto tutti verso l’alto si era andata esaurendo dagli anni Settanta, ma abbiamo a lungo preferito premiare la politica che prometteva il suo ritorno. E oggi, pur sapendo che le risorse sono insufficienti, tendiamo ad attribuire il peggioramento delle nostre condizioni alle trame di potenti nascosti».
In che modo cambiano le categorie per interpretare il nuovo?
«Le vecchie contrapposizioni — operai e borghesia padronale, città e campagna, laici e cattolici — non riescono più ad afferrare la realtà.
Certo, esiste ancora un ceto padronale ed esistono i lavoratori dipendenti: ma i lavoratori dipendenti sono una classe omogenea? Penso alle distinzioni travecchi e giovani, uomini e donne, cittadini e immigrati, abili e disabili (la disabilità psichica di vario tipo è elevatissima), garantiti e precari. E inoltre le società si vanno sempre più individualizzando: questo significa che il singolo non si sente più parte del corpo collettivo anche perché non vuole esserlo, vuole essere se stesso, con grandissime conseguenze sociali, culturali, etiche».
A tutto questo è legata anche la crisi del modello di rappresentanza politica del nostro Occidente, ossia la liberaldemocrazia.
«Durante lo sviluppo, la liberaldemocrazia è riuscita a tenere insieme dirigenti e diretti. In un mondo in cui le risorse diminuiscono e le aspettative si fanno decrescenti, viene meno la fiducia dei rappresentati nei rappresentanti: se per garantirmi la pensione tu governante la tagli del venti per cento, io mi concentro sul taglio doloroso del mio reddito non sul disegno di ampio respiro. Non è un caso che in Italia a vincere le elezioni siano le persone che promettono di più: è il salto pericolosissimo dalla democrazia alla demagogia.
L’abbiamo visto con il successo prima di Berlusconi poi di Grillo, Salvini e Meloni. Ma c’è anche il rischio che i consensi della maggioranza premino una personalità forte. Ci potremmo ritrovare in una democrazia autoritaria, come è accaduto in Russia, in Ungheria, in Polonia».
Per salvare la liberaldemocrazia bisogna prendere atto che il mondo è cambiato?
«Deve essere costruito un discorso per la nuova società: oggi manca completamente. Come si provvederà alla moltitudine di vecchi non autosufficienti? Qual è la strada migliore per aumentare le nascite nei paesi sviluppati, un risultato che l’esperienza ha dimostrato difficilissimo da raggiungere?
Come possiamo integrare nel nostro paese i milioni di immigrati non europei di cui abbiamo estrema necessità, anche a causa di quella difficoltà?
Come si spostano le risorse economiche dalle fasce più anziane — quindi dalle pensioni — ai bisogni dei più giovani? Solo vedendo e quindi affrontando la complessità del mondo nuovo riusciremo a difendere la nostra liberaldemocrazia».