Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 12 Domenica calendario

Domenico Starnone racconta Domenico Starnone

Quando Domenico Starnone scrive che «questo libro è frutto della vecchiaia, il periodo meno assennato dell’esistenza», non credetegli. Non credetegli perché in L’umanità è un tirocinio (Einaudi) quello che viene dopo, quello che lui fa succedere è il contrario: tumulto, scoperta, dubbio, incanto. Non c’è punto di arrivo, come per i libri letti in giovinezza che riletti dopo molti anni mostrano lati al tempo non visti, acquistano bellezza dove pareva esserci il difetto, l’errore. L’autore ammette: «Mi piacciono tutti gli errori, tutte le sviste, tutti gli abbagli» – la sua è una dichiarazione di poetica, e insieme uno sguardo.
Dunque questo libro non è semplicemente una raccolta di scritti, piuttosto una selezione che si fa ritratto. Disegno a carboncino, come quello della mano apparso nel dormiveglia che rimanda ad altri dipinti di mani: «Non nasconde l’abbozzo e la cancellatura, ma li mette in scena. Così l’opera non è più la risultanza rifinitissima di un lavorìo, ma il suo farsi per tentativi ed errori».
Esattamente il percorso dell’io narrante in questo libro, e nell’opera di Starnone in generale.
Qui l’io irrompe, sparisce, ora rimbrotta, ora è Starnone adulto che biasima Starnone adolescente, lo contraddice. L’umanità è un tirocinio è un’autobiografia smemorata, un memoir menzognero, un racconto di formazione di un ragazzo che pensava di non avere diritto alla letteratura e lottava col dialetto. Quel ragazzo che studiava per diventare scrittore come immaginava che lo scrittore dovesse essere, e si sforzava di parlare l’italiano dell’uomo del telegiornale; il giovane che rinunciava a scrivere poiché si riteneva manchevole di suo e di famiglia – mancanza di «eredità materiale e immateriale», la definisce.
Non c’è posto per lui, conclude. E non è una conclusione.
Con Raffaele La Capria scopre che Napoli, in apparenza irraccontabile, si può raccontare. Con Natalia Ginzburg impara che il quotidiano è narrabile inventando una lingua. E poi: il punto di vista, la voce – che cosa sarebbe l’opera di John Fante senza la voce di Arturo Bandini? O l’io di Federigo Tozzi che compare timido quasi fosse un errore, in realtà segno di travestimento. «Bisognerebbe fare la storia di questi travestimenti. Bisognerebbe fare l’elenco di quanti personaggi femminili di buon livello, se non memorabili, sono nati dalla necessità maschile di acquistare libertà espressiva. In genere, quando Flaubert dice: Madame Bovary sono io, tra le tante cose finisce con il segnalare anche: Madame Bovary non è Madame Bovary».
Starnone analizza, scompone, e al contempo mette in scena, rendendo visibile lettore e scrittore.
Così leggendo Gatto sotto la pioggia di Hemingway, lì dove alla donna che non vede più il gatto che voleva prendere, viene consegnato in sostituzione un gatto di maiolica, Starnone ragazzo si entusiasma, trova il tipo di scrittore che vuole essere («uno che governa il caos della realtà con l’elisir della finzione, uno che fa felici le signore dolenti con gatti di maiolica»). Tranne accorgersi, anni dopo, che si tratta di un errore di traduzione. Hemingway scriveva: a big tortoiseshell cat, ovvero un gatto tartarugato vivo. Il gatto di maiolica è del traduttore. E qui interviene l’io narrante dispotico a decidere che no, lui non se ne fa niente del gatto tartarugato, lui sceglie l’errore: «Gatti e gatti e gatti di maiolica», si augura.
Gatti e gatti sono lo sguardo, il racconto a dispetto della realtà, di ciò che si vuole vero e unico.
E che Starnone non creda all’unicità, al fatto compiuto, lo dimostra datando il principio della sua voglia di scrivere: «In origine è stata la cicogna», dice. Senonché alla cicogna si aggiunge una notte di litigio dei genitori. La stessa cicogna poi si fa due, o comunque mostra due facce: quella che porterà il fratellino, disegnata dal padre (il Federì di Via Gemito), e quella di cui parla la levatrice o la zia per giustificare le lenzuola sporche di sangue: «La cicogna ha portato il fratellino, ma poi se lo voleva riprendere, e vostro padre, meno male, l’ha ammazzata».
Entriamo
con l’autore in un tempo non lineare, che salta, avanza, indietreggia
Due facce la cicogna, due facce il padre.
Volto indefinito chi dà la notizia (zia o levatrice): come a attestare che la letteratura è luce su alcuni, e foschia su altri.
Starnone duplica, moltiplica. Fissa punti cardinali per muoversi nel tratto intermedio: «Quanto più riuscivo a sostare nello spazio tra il sì e il no».
Libri come Cuore di Edmondo De Amicis, o Lord Jim di Joseph Conrad svolgono la funzione di sì e di no, o meglio: i sì e i no sono le letture in età diverse.
Bambino piange su certe pagine di Cuore, le stesse su cui ride quindici anni dopo.
Adolescente si irrita per l’ingerenza di Marlow nella storia di Jim: perché non far parlare direttamente l’eroe giovane, anziché il cinquantenne Marlow che finge di amare Jim, e invece lo ridicolizza? Passano gli anni, e l’adulto comprende che senza Marlow Lord Jim sarebbe solo un buon un libro di avventure, e che viceversa col tramite di Marlow diventa un libro sulla smania, sul desiderio, e sul tempo che non è più: Marlow guarda Jim da fuori, e guardando lui, guarda sé stesso. Attenzione: non è forse questo, anche questo, L’umanità è un tirocinio? Starnone adulto che guarda Starnone adolescente? Domenico Starnone fa di sé stesso ragazzo il suo Lord Jim.
Possibile? L’io narrante del libro risponderebbe «non lo so», come risponde alle molte domande tese a incasellare un romanzo, un personaggio: «Io non lo so, io non lo so», dice, e nell’io non lo so ribattuto c’è la possibilità di essere ogni cosa. L’imperfetto ludico dei bambini – «io ero la principessa» – che lo scrittore spiega, e insieme usa. Pertanto il ritratto di sé che viene fuori non segue una cronologia, e neppure un’identità data per sempre: «Non c’è niente che si dia una volta per tutte in un racconto».
Il doppio, la contraddizione, i mille Franti che sono i suoi studenti, i gatti, tutti i gatti. E allora: L’umanità è un tirocinio non è la formazione di un lettore, né di uno scrittore, bensì la formazione di Domenico Starnone – chiunque esso sia (tra i tanti: uno dei più grandi scrittori viventi). E che Starnone sia molti individui lo stabilisce lui in questo tempo non lineare, che salta, avanza, indietreggia, dando l’idea della simultaneità dei ruoli: studente, professore di liceo, scrittore agli inizi, scrittore affermato, figlio di Federì, ferroviere pittore che lamenta: «Io a Napoli non sono capito» (Via Gemito).
Domenico Starnone può essere tutto. Ecco perché non bisogna credergli quando scrive che «questo libro è frutto della vecchiaia», non credetegli: deve accadere ancora tantissimo.