Corriere della Sera, 12 febbraio 2023
La vita dei senzatetto di Torino con 10 euro al giorno
«Io nella vita una cosa l’ho capita, che la gente è cattiva». Cristina aveva un figlio, un marito, una casa, un impiego, e ora non ha più niente. Uno schiocco di dita. «Ci vuole tanto così, basta un attimo».
Chissà quando è successo. Quando si è rotto il ghiaccio sotto ai piedi di una esistenza normale. Quale è stata la disperazione che ti ha obbligato a convincerti che questo strato di cartone sopra al marmo freddo e queste coperte che non bastano mai sono stati davvero una scelta, e non un vicolo cieco. «Se cadi, sono contenti, e gli piace lasciarti a terra, li fa sentire fortunati».
Cristina è considerata la decana dei portici. Quando parte per i suoi viaggi senza destinazione, nessuno occupa il suo posto sotto all’insegna luminosa del negozio Mont Blanc. Se un nuovo arrivato ci prova, trova sempre qualcuno pronto a fargli cambiare idea, con le buone o con le cattive. Ma lei non fa mai caso a quel che le succede intorno. Tutto il suo mondo e i suoi ricordi stanno dentro un sacchetto da supermercato, oggetti sparsi alla rinfusa, che lei estrae per esibirli come fossero una prova, non è sempre stato così, anche io sono stata come voi, anche io sono stata felice. «Ho pure un nipotino, lo sa? Guardi la foto, come è bello». È una donna impegnata a conservare la propria dignità, che per prima cosa mostra le sue unghie pulite e il suo astuccio per la toilette agli estranei che la stanno disturbando. «Stavo per andare a letto» dice con la sua voce da cantilena piemontese. E ci aggiunge un sorriso che richiede complicità. Ma è difficile ricambiarlo.
Notte di inizio febbraio. Tira un vento gelido, uno sguardo al telefonino rivela che siamo già sottozero, tra due ore si scenderà a -4. Per tutte queste persone accampate tra via Roma e Galleria San Federico magari è normale. Però fa proprio tanto freddo, da battere i piedi sul selciato dove loro invece dormono, o almeno ci provano. Gli articoli sui clochard all’addiaccio sono come le strenne natalizie, riservano sempre poche sorprese, quando arriva la stagione si guarda e si scrive, poi finisce lì, fino al prossimo inverno. O al prossimo dolente ritratto sul morto senza nome dimenticato da tutti. Torino ne è una capitale, a malincuore. Oltre 2.200 persone senza casa, una ogni cinquecento abitanti. Negli ultimi tre anni sono raddoppiate.
Via Roma e i suoi portici sono il cuore commerciale della città, una passerella a cielo aperto. Tutte le sere intorno alle 19.30 è come se avvenisse un passaggio di consegne tra il popolo di sopra e quello di sotto. Gli ultimi pendolari corrono verso la stazione di Porta Nuova, i turisti rientrano in hotel, pregustando le cene, la partita in televisione, il calore di una casa. Le strade del lusso si svuotano. Come dal nulla, spuntano decine di persone, che attendevano solo il momento per sistemare il loro giaciglio, le loro cose chiuse nei sacchetti, ammassati in carrelli della spesa sbilenchi. All’ultimo censimento fatto dei vigli urbani, un mese prima della pandemia, si contavano nel giro di poche centinaia di metri circa 250 «senza fissa», come li chiamano gli operatori sociali, lasciando cadere dalla definizione quel «dimora» ormai inutile. Quando la trasformazione è compiuta, il contrasto tra le vetrine illuminate dei negozi alla moda e quelli che ci dormono fuori non potrebbe essere più violento.
«È una vita che consuma, che ti spegne come una candela. Ma hanno fatto più male i dispiaceri». Ogni tanto Cristina fugge, non solo dal freddo di questi marmi, ma da un dolore al quale non riesce a dare un nome. Sale su un treno interregionale che la porta in Liguria, e poi verso il mare, su fino alla Costa Azzurra. «Immagino di fare le vacanze con mio nipote, che oggi dovrebbe avere sette anni. Ma poi mi viene in mente che non so neppure più dove abita, che forse non saprei riconoscerlo. E torno indietro». Scende per ultima e fa incetta di giornali e libri dimenticati dagli altri passeggeri. Tira fuori da un altro sacchetto una guida di Nizza, un libro in francese di Anna Politkovskaja, giornali vecchi di qualche giorno. «Cerco di tenermi aggiornata, di capire qual è il nostro futuro. Vivere per strada non significa mica essere privi della propria dignità». Ma a cominciare dai verbi sempre coniugati al passato, tutto in lei induce al rimpianto. Dal balcone di casa sua vedeva i soldati della caserma di fronte che ogni sera uscivano a suonare il silenzio. Suo marito era un tecnico della Fiat. Poi cosa è successo, Cristina? «La gente muore, la gente che resta delude. Chi è più debole sta male. Io non ce l’ho fatta, non ho retto. Ma un giorno mi rialzerò. Sono qui di passaggio. Appena trovo una casa, mi sistemo».
Nessuno dice di essere qui per restare. La rientranza nel portico del cinema Lux è uno dei luoghi più riparati. È già passata mezzanotte quando una voce chiama da sotto un cumulo di coperte. Antonino, 44 anni, un tempo artigiano decoratore a Moncalieri. Problemi con le droghe, una denuncia durante il lockdown per avere aggredito un carabiniere. Una fidanzata che non ne poteva più di lui. Prima sono finiti gli amici, poi i soldi. La solitudine è sempre l’inizio della discesa. Fino a Natale racconta di essere stato ospite del dormitorio di Rivoli. «Ma lì comandano gli africani. E poi qui si sta meglio, almeno non hai obblighi». Giaccone, cuffia di lana, scarpe ai piedi, telefonino e portafoglio nascosti nelle mutande. La notte si dorme poco. I piccioni disturbano, il mal di schiena morde, ogni tanto qualcuno prova a rubare qualche oggetto al proprio vicino di giaciglio. Antonino conosce tutto e tutti, vita, morte e miracoli. Ma racconta di essere arrivato in Galleria San Federico appena tre mesi fa. «È più facile “scollettare” con i passanti che trovare un lavoro. Per fare la spesa al Lidl mi bastano dieci euro al giorno. Tanto alle 22.10 arrivano sempre i volontari con il cibo caldo. Se fai passare troppo tempo finisce che ti ci abitui. Ancora qualche giorno e me ne vado».
La foto di denuncia fa sempre il suo effetto, anche se negli anni ha perso ogni significato. La prospettiva di via Roma è una lunga fila di rudimentali fagotti, i sacchi a pelo sono merce rara, uno per ogni rientranza di negozio, illuminati dalle insegne dei marchi più famosi e di prestigio. Ma non c’è causa e non c’è effetto. Non è il consumismo altrui che trasforma una donna o un uomo in un clochard. È come se le crisi economiche degli ultimi anni avessero ridisegnato la mappa del cosiddetto disagio sociale, definizione quasi rassicurante coniata per nascondere la nostra paura dell’abisso, della povertà estrema, che non sembra ma è lì a un passo. Non ti accorgi del piano inclinato, e ci scivoli sopra. Nel gennaio del 2020 uno studio dei Servizi Sociali del Comune aveva tolto qualunque patina da scapigliatura e di ribellione al destino di chi dorme per strada. Più della metà dei senza tetto era di nazionalità italiana e aveva un’età compresa tra i quaranta e i sessant’anni. I giovani, solo stranieri, quasi tutti dell’Europa dell’Est, perché il Covid ha cambiato ancora una volta tutto obbligando intere comunità all’esodo.
Anche nel centro di Torino è come se il mondo di sotto fosse diviso in due. Agli italiani vanno gli anfratti più riparati, conservati talvolta con l’aiuto dei volontari che forniscono lucchetti e catene per fissare il proprio bagaglio. Quelli in galleria, quelli dove c’è una qualunque sporgenza che protegge e rende più tollerabile il freddo. I rumeni appena giunti da Satu Mare, centomila abitanti ai piedi delle montagne di Transilvania, dormono dove capita insieme ai loro cani. Antonio, uno di loro, chiede aiuto. Accanto a lui c’è una sua anziana parente, Adeliana, che trema in modo vistoso. Il suo unico riparo è un lenzuolo usa e getta di tessuto sintetico, di quelli che si usano nelle case di riposo. «Da noi non c’è niente. Quando arriva la neve grande, veniamo da voi».
Alle 4.20 si alzano quasi tutti. A quell’ora apre l’atrio della stazione e il suo bar interno. Esiste un patto tacito con i vigili urbani, niente bisogni in strada, altrimenti i commercianti protestano e arriva la nettezza urbana che carica sui camion la spazzatura e i giacigli. L’unica toilette è quella del parcheggio sotterraneo in piazza CLN, ma è lontana. Molti clochard usano i pannoloni, che al mattino gettano nei cestini pubblici. Mentre seguiamo il piccolo gruppo che attraversa piazza San Carlo, si sveglia Massimo, che ha preso residenza vicino allo storico Caffè Torino. Il suo unicorno appoggiato ai piedi del materassino da yoga sul quale dorme è l’esca che usa per attirare le elemosine. Con la barba bianca incolta e lo sguardo buono, è diventato un elemento del paesaggio. Ex operaio, un figlio trentenne che lavora in un bar poco distante. «Abbiamo il patto che fingiamo di non conoscerci». Trecento euro per la pensione di invalidità, affetto da depressione bipolare. «La verità è che abbiamo tutti problemi mentali. Altrimenti chi si lascerebbe andare in questo modo?». Fino a qualche mese fa puliva le stalle in un maneggio, poi non ce l’ha più fatta. «Non avere un tetto è un lavoro a tempo pieno. Ma sono ottimista, tra poco me ne andrò da qui». Anche lui sente il bisogno di ripeterlo, in primo luogo a se stesso. Perché una piccola speranza di futuro vale più di una casa. Come per Cristina, che cerca solo qualcuno che le voglia bene. Come per Antonino, che aspetta l’aiuto di un amico perduto. Contano i giorni, e sono qui da anni.