Domenicale, 12 febbraio 2023
La casa dove morì Wagner
Ultime a ritornare a casa, tre anni fa, le forme per le scarpe: non grandi, tozze, punta decisamente squadrata. Di legno, ovviamente, e con la parte centrale del collo del piede amovibile; ben riparate sui lati – nulla si buttava – con strisce di cuoio fissate a piccoli chiodi. Campeggiano lì, nella nobile vetrina dei libri antichi, un po’ straniate tra volumi di Poesie del Metastasio e una preziosa edizione dell’Orlando furioso. Un vecchio spago le tiene appaiate. Sul tallone, in corsivo, una grafia a grandi lettere nere ha lasciato scritto: «R. Wagner».
Oggetto basso e quotidiano, colpisce che siano approdate in queste stanze di Ca’ Vendramin Calergi, dove si respira solo estrema eleganza e ineffabile silenzio. Ampi affacci sul Canal Grande, qui Wagner trascorse l’ultima porzione di vita, per la sesta volta nella amata Venezia. Aveva quasi settant’anni. Non scelse il piano nobile, bensì il mezzanino, quando nel 1882 prese in affitto una discreta porzione di locali: ventotto, e tutti comunicanti tra di loro con doppie porte (rimaste intatte). Gli piacevano per il silenzio, il conforto di un ampio giardino con un melograno accanto a piante esotiche, ma che soprattutto apprezzava per i soffitti bassi, dunque calde, riscaldate attraverso un modernissimo sistema di stufe in ceramica. Qui, per la prima volta in vita sua, Wagner paga l’affitto senza batter ciglio: per tre anni. Con l’opzione di estenderlo a cinque. La scaramanzia non funziona, saranno solo cinque i mesi, inquieti, come racconterà la vedova Cosima, tra scrittura e passeggiate in San Marco, che in famiglia chiamano in italiano, «piazzetta», pasti veloci, notti insonni. La sala che ospita il fortepiano, della fabbrica viennese di Joseph Angst, costruito intorno al 1820, è anche oggi inondata di sole. I raggi la invadono radenti, nelle giornate d’inverno. Ed è proprio questo taglio speciale della luce a colpire il compositore: «Zauberlicht», la chiama. Luce magica. Qui per l’ultima volta suona al pianoforte, il giorno prima della morte, ed è il tema del lamento delle Ondine dal Rheingold, fanciulle acquatiche che cantano quanto sia senza valore e falso ciò che rende felice il mondo, fuori.
Con le due marionette in forma di piedi, nipoti e pronipoti di Wagner hanno sempre giocato e scherzato irriverenti: «Ecco i piedi del nonno!». Nel 2019 le donano alla Associazione Richard Wagner di Venezia, che dal 13 febbraio 1992 opera per mantenere viva da qui la conoscenza del compositore. A plasmarla lo scomparso mecenate e studioso Giuseppe Pugliese, che volle radunati come soci fondatori il Comune e tutte le colonne della musica nella Serenissima, il Teatro La Fenice, le Fondazioni Cini e Levi, l’Ateneo Veneto, il conservatorio Benedetto Marcello, l’Associazione culturale italo-tedesca, gli Amici della Fenice. A presiederla è ora Alessandra Althoff Pugliese, che insieme ai consiglieri lancia il nuovo traguardo per il Museo, nel frattempo tenacemente riconquistato a sei stanze: entrare nella rete MUVE, far parte dei Musei Civici di Venezia. Garantendosi solidità, nuove acquisizioni e visibilità. Perché sono in pochissimi, persino tra i veneziani o wagneriani più devoti, ad aver visitato questo rifugio toccante.
Wagner muore qui, il 13 febbraio 1883. Domani saranno 140 anni. Il lutto è universale (persino Verdi). L’ala della cinquecentesca dimora, che era stata presa in subaffitto dal nipote della proprietaria – lui Conte di Bardi, fiorentino, lei duchessa di Berry – viene svuotata, oggetti e arredi imballati e spediti a Bayreuth. Quando anche il Conte esce di scena, nel 1906, la collezione di arte orientale finisce in parte all’asta, in parte acquisita dal Comune. Nel deserto rimane solo qualcosa accatastato negli angoli, nascosto sotto vecchi tappeti, come il fortepiano. Dagli anni Cinquanta a Ca’ Vendramin ha sede il Casinò di Venezia. Nelle stanze wagneriane vuote si ventila la minaccia di collocare le nuove slot machine. Gli anni passano, nel 1995 il sindaco Cacciari affida all’Associazione wagneriana la Sterbezimmer, la camera dell’attacco di cuore. Qui dove era stato trasportato dalla moglie e dalla cameriera sul sofà di broccatello, coperto da una pelliccia d’orso. L’orologio gli cade a terra, «Meine Uhr», le ultime parole. Oggi è uno dei cimeli veneziani al museo sempre aperto di Villa Wahnfried, insieme al gigantesco letto che troneggiava nel locale accanto, «foderato con un pesante raso color tè ghiacciato», come meticolosa lo descrive Henry Perl in Wagner in Venedig, 1883. Henry, che era poi Henriette, grazie a fonti di primissima mano raccontò tutto di quegli interni, registrando persino il numero dei cuscini (sei, medesimo colore del copriletto) della enorme ottomana, «secondo la moda orientale». Dal lettone Cosima non si sarebbe più separata.
Wagner arrivava in gondola a Ca’ Vendramin. Il fido “Ganassetta”, gondoliere factotum, lo lasciava alla porta d’acqua sul Canal Grande: «In questo palagio l’ultimo spiro di Riccardo Wagner odono le anime perpetuarsi come la marea che lambe i marmi», incide nella lapide bianca lì accanto D’Annunzio. Più che marmi oggi ha intorno mattoni screpolati, le stesse poetiche crepe che consumano il muro attorno all’altra targa, all’ingresso di terra, su Calle Larga Vendramin: «A Riccardo Wagner morto fa queste mura...». Una vetrinetta accanto al portale bugnato ci informa di un nuovo ristorante all’interno, chef Alessandro Borghese. La corte ha una vera da pozzo. Silenzio assoluto. Tranne una guardia, nessuno.
All’ingresso fastoso del Casinò, tra scaloni e armigeri, si apre una porta discreta, poco appariscente: Museo Wagner (italiano, inglese e giapponese) indica la freccia sulla breve rampa di scale. La segnaletica anti-incendio fotografa eloquente la larga distribuzione degli spazi: era un Ring, un anello, il disegno dell’appartamento finale scelto da Wagner. Forma del pensiero musicale ritrovata nelle architetture veneziane: «Qui voglio morire», pare avesse detto al primo incontro.
Oggi le sei stanze si attraversano come un pellegrinaggio. Grazie ai fondi Pugliese, Lienhart e Just rappresentano la più grande collezione dedicata a Wagner al di fuori di Bayreuth (senza il peso nazista di Bayreuth) e Tribschen. Immagini storiche, come la Nibelungenorchester 1876, con i ritratti di tutti gli orchestrali, o il sofà simile all’originale, donato dall’Hotel Danieli, si alternano a teche con prime edizioni, manoscritti. La locandina della prima Tetralogia in Italia, alla Fenice, aprile 1883, che avrebbe incoronato Venezia città wagneriana. In una stanza il Bechstein, nell’altra accanto il fortepiano, e sembra ancora di sentirli, Liszt e Wagner, mentre ruggiscono fronteggiandosi alle tastiere. Sullo scrittoio della Sterbezimmer una copia delle ultime parole, manoscritte, fitte fitte, sul tema dell’eterno femminino. Come un appunto, rifugiate in un angolo in alto a sinistra le ultime. La pagina sotto bianca.