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 2023  febbraio 12 Domenica calendario

Intervista a Leo Gullotta

Testimone consapevole, selezionatore di emozioni, di esperienze. Portatore sano di una storia complessa in cui la Luna non si nasconde dietro un dito. E il proprio “io” è a servizio di un noi più complesso e articolato di un singolo sipario sull’esistenza.
Così per capire Leo Gullotta è perfetto il tavolo di un ristorante, scelto da lui in una zona di Roma Est (“meno turistica, qui ancora ci si riconosce e si parla”), ed è sempre lui a indicare i piatti da ordinare, senza se e senza ma, senza appello a diete, orari o rischio di sonno post pranzo. Arriva a spezzare il pane con le mani, intingerlo nel sugo della Coda alla vaccinara per poi invitare a mangiarlo (“Senta, è buonissimo”).
La vita è condivisione. L’arte è condivisione. Leo Gullotta è condivisione.
E per condividere ha pubblicato un libro scritto con Andrea Ciaffaroni, La serietà del comico (Sagoma), in cui il racconto non si limita all’aneddoto, ma diventa un trompe-l’oeil dell’esistenza dove ognuno può riscoprire un pezzetto d’Italia. “La verità è che sono cresciuto con alcuni dei ‘monumenti’ del teatro; ricordo Salvo Randone, con lui da ragazzino ho girato l’Italia con uno spettacolo di Pirandello”.
Randone…
Un uomo gentile, discreto, straordinario; in alcune serate era come avvolto da una luce: durante le prove restava sempre in quinta, seduto su una seggiolina, e se aveva un consiglio da darti si avvicinava, e con la sua voce bassa si scusava per l’interruzione e con garbo interveniva.
Anche a lei…
Ogni tanto mi invitava a cena, a casa sua, con sua moglie (Neda Naldi, ndr) donna molto particolare: parlava sempre, e lui zitto; (pausa, cambia tono) oltre al piacere di stare con loro, a me serviva per mangiare, allora le paghe erano basse…
Insomma?
Come dicevo lui sempre zitto, lei implacabile, poi ogni tanto, quando proprio non ne poteva più, gli scappava un “mi hai rotto i coglioni”.
Era l’epoca delle mezze porzioni al ristorante?
No, io ho vissuto gli anni dei cappuccini o del latte e biscotti a cena e pranzo; (pausa) non penso a quel periodo con angoscia, neanche i dieci anni vissuti in una pensioncina a Roma dove non c’era nemmeno il telefono e le chiamate le ricevevo al ristorante di fronte.
C’è un “piuttosto”?
Penso da dove sono partito e come sono stato fortunato.
Da Catania…
Nato alla fine della guerra in un quartiere popolarissimo, ultimo di sei figli, papà operaio e mamma casalinga; non sapevo nulla di teatro, fino a quando, per una serie di circostanze, mi sono trovato all’inaugurazione dello Stabile di Catania, poi guidato per trent’anni da Mario Giusti; (sorride) ci sono rimasto per dieci anni con la fortuna di incontri straordinari, persone poi diventate punti di riferimento per la vita.
Da ragazzo con poca esperienza si rendeva conto dell’importanza di quegli incontri?
No, intuivo solo il livello alto dei loro discorsi, quindi mi appassionavo; (sorride) penso a Turi Ferro, uno Zelig meraviglioso, guardarlo era già una lezione; o a Leonardo Sciascia seduto in platea, silenzioso, con le sue dita gialle, macchiate dalla nicotina; oppure Giuseppe Fava, con il suo sorriso unico e unico nello scrivere di mafia negli anni Sessanta, con tanto di mappe su chi comandava e dove. Pippo ha rotto i coglioni fino all’ultimo; (abbassa la voce) a Catania c’è una via intitolata a lui e ogni anno il 5 gennaio (giorno del suo omicidio, ndr) gli amici si radunano per ricordarlo. Non è mai venuto un sindaco. (Silenzio) Però non ho imparato solo dai big.
A chi pensa?
Al siparista: la mattina era spazzino, la sera saliva sul palco e mostrava a tutti la sua arte nel tirare il sipario; il siparista deve conoscere i tempi, non è scontato.
I suoi genitori come hanno giudicato la sua svolta artistica?
Non mi hanno mai detto di no; a 18 anni sono andato da mio padre per chiedergli un consiglio, per capire cosa ne pensasse di me e del teatro: “Leo, mi dispiacerebbe pensare ai tuoi cinquant’anni obbligato in un mestiere che non ti piace. Fai ciò che credi opportuno”; mio padre era una persona particolare, un operaio e pasticciere tra i protagonisti, ad Avola, di una delle ultime vere rivoluzioni di questo Paese (nel 1968).
I suoi sono riusciti a vedere il successo?
Papà no, solo il saggio di fine corso al Cut; mamma era invece gioiosa, fiera di me: aveva la mia stessa struttura del viso, ci assomigliavamo, e quando andava e prendere la pensione, spesso la signorina la guardava e magari aggiungeva: “Signora, lo sa che ricorda Leo Gullotta?”. Mamma soddisfatta.
Un pensiero particolarmente felice di quegli anni a Catania…
Il giorno dei morti i bambini aspettano i doni delle persone che non ci sono più ed è una chiave bellissima per affrontare il lutto…
Cioè?
Ricordo quando trovavo sotto il letto il giocattolo o il cappottino, e i miei: “Questo te lo manda il nonno, quest’altro zia”.
Vicino a dove siamo ora è cresciuto Nino Manfredi.
Con lui ho avuto un rapporto meraviglioso; nel famoso quartetto dei “colonnelli”, lui è il più “americano”: in tutta la carriera non ha mai replicato un personaggio, ha cambiato sempre. Questo è il mestiere dell’attore.
Tra i quattro colonnelli spesso è messo in coda.
Perché Nino parlava, studiava e se incontrava un giovane valido se lo portava dietro e gli dava il giusto spazio.
Che vuol dire “parlava”?
Non stava zitto, non era accondiscendente; ho passato giornate incredibili con lui e Nanni (Loy, ndr) a provare i copioni, perché con loro due, prima del ciak, si approfondiva.
Manfredi ha la fama del “secchione”…
Conosceva pure le parti degli altri attori.
Con Nanni Loy ha girato cinque film.
La sua preparazione, la sua intelligenza, la sua morale, il suo senso del sociale in qualche modo hanno disturbato questo Paese; (cambia tono) quando stavamo sul set, dopo aver finito di girare una scena, si voltava e chiedeva ai tecnici il loro giudizio. Poi utilizzava una chiave ironica che non ti permetteva di capire se fosse serio o se stesse scherzando.
Le arrivano sempre molti copioni?
Per fortuna sì. Però non si può andare avanti con i soliti cinepanettoni, mentre va bene la commedia come con Ficarra e Picone, due grandissimi interpreti in grado di trattare temi sociali con il sorriso.
Ha recitato nei “cinepanettoni” anni Settanta…
Quelli delle soldatesse, professoresse o infermiere…
Sì.
Tutta esperienza, allora non sapevo nulla di cinema: in quel mondo ho capito come si sta davanti a una cinepresa, come si utilizza la voce.
E non pensava “oddio dove sono finito”.
Mai avuto questa puzza sotto il naso; invece è stata un’invenzione per campare.
Lei di sinistra, Pingitore di destra, avete mai discusso di politica?
Abbiamo lavorato vent’anni insieme al Bagaglino e lo spettacolo si provava tutti i giorni, eppure non abbiamo mai litigato; (sorride) tutto l’arco parlamentare è venuto da noi, è entrato nella nostra vignetta, si è fatto prendere per il culo, si è prestato alla liturgia e se proponevo qualcosa di diverso, Pingitore non mi limitava; (cambia tono) spesso sui giornali sono stato attaccato per la mia presenza nel gruppo del Bagaglino, come se per la mia carriera fosse una deminutio.
E invece…
È una stupidaggine; (pausa) ho partecipato anche all’ultimo film di Steno (Animali metropolitani del 1987, ndr), una pellicola non buona, ma almeno ho potuto lavorare con uno dei più grandi e sono riuscito a conoscerlo.
Tra i film meno buoni c’è Stark System, regia di Armenia Balducci, compagna di Volonté.
Anche lì, ho accettato per stare su un set con un gigante come Gian Maria.
E…?
Persona grandemente professionale, appena lo conoscevi avvertivi una forza particolare; uomo non solare, da battaglia, qualsiasi tipo di battaglia; ecco, questo è uno dei casi in cui sono stato pagato per vivere dal vivo un pezzo di storia del cinema, una lezione di come si vive davanti alla macchina da presa.
Un’esperienza che non le è piaciuta?
Non lo dirò mai.
E quando si trova davanti a un attore non all’altezza?
La scelta non è stata mia.
Molti suoi colleghi preferisco il set alla vita.
Per me sono due situazioni ben distinte che non si possono mettere insieme; anni fa Christian De Sica mi ha proposto una parte in Uomini Uomini Uomini, dovevo interpretare un omosessuale, e io lo sono, ma questo non vuol dire che ho portato dentro la mia vita. E poi De Sica è un professionista che conosce come pochi questo lavoro: preciso, puntale, bravissimo.
A sua mamma ha parlato di omosessualità?
No, quando l’ho capito, lei era ormai anziana. Ho lasciato perdere. Ma a parte questo non ho mai avuto problemi, mai alcun turbamento, tanto che la questione è uscita nella conferenza stampa di Uomini Uomini Uomini, quando un giornalista è stato diretto e me lo ha domandato. E io: “Sì, perché?”; (pausa). Fino ai trent’anni sono stato etero, poi è accaduto qualcosa e ho solo capito che non mi piaceva più la crema ma il cioccolato.
Rivede i suoi film?
Quando capita.
E in quale pellicola si è piaciuto?
Non penso singolarmente, ma guardo al progetto, al percorso.
Quindi quale progetto?
Nuovo cinema paradiso: ripenso a quei mesi passati sul cucozzoletto di Palazzo Adriano, in Sicilia, dove la popolazione ci coccolava in ogni modo. E poi c’era un cast assurdo per i tempi di oggi.
Con Tornatore ha girato Il camorrista.
Ero all’Anfiteatro di Campobello di Mazzara, a un certo punto arriva un ragazzo, si presenta: “Piacere, sono Giuseppe Tornatore”. “Piacere”. “Vorrei saper perché non ha gradito la sceneggiatura de Il camorrista”. “Ma io non ne so nulla”. “L’ho data al suo agente”. “Mai ricevuta”. A quel punto l’ho interrotto: “Parteciperò a questo suo film”. Poi sono andato alle poste e ho mandato un telegramma al mio agente: “Non ti interessare più a me”.
Come mai ha accettato così?
Per la buona fede, perché era arrivato fino a lì per cercarmi; grazie a quel film ho vinto il mio primo David.
Farà mai il regista?
A ognuno il suo mestiere. Non ci si può improvvisare e l’arte di arrangiarsi non è per me.
Il Bagaglino le manca?
È stato un momento bellissimo, lo ricordo con piacere, però non ho nostalgia.
Ha conosciuto Berlusconi?
Inevitabile. Ma a differenza di molti miei colleghi non mi sono mai prostrato e non ho accettato i suoi regalini.
Che regalini?
Si presentava con orologi per gli uomini e gioielli a forma di farfalla per le donne. L’orologio non l’ho preso.
Da quando ha perso la “e” aperta alla catanese?
(Ride) Se m’incazzo torna.
Lei chi è?
Una persona perbene. Da sempre.
(Per la cronaca: dopo tre antipasti, i tonnarelli cacio e pepe, la coda e il dolce. Tutto buonissimo. Chi scrive è andato in crisi)