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 2023  febbraio 12 Domenica calendario

Intervista a Renzo Arbore

“Non sono solo canzonette. Non lo sono mai state”.
Parla di quelle in gara quest’anno a Sanremo, caro Renzo Arbore?
Parlo dell’eccellenza italiana che è stata, per decenni, la musica leggera. Torniamo a usare questo termine, più nobile di pop e perfino di ‘canzoni’. Per fortuna il Festival del bravissimo Amadeus e le trasmissioni di contorno della Rai hanno finalmente suggellato e consacrato, grazie anche a Mattarella, il valore culturale di tanti brani del passato che parevano stagionali e che invece non si sono rivelati merci deperibili. Oggi vengono cantati con lo stesso entusiasmo di quando furono pubblicati. Dal setaccio sono emerse cose indimenticabili. Benigni ha citato una perla come Il cuore è uno zingaro di Nicola Di Bari. Disponiamo di evergreen, ma quasi per caso. Di standard germinati spontaneamente. Che hanno raccontato la nostra storia.
Un patrimonio incredibile, fondamento della memoria collettiva.
Cultura popolare. Ma che non siamo stati in grado di esportare, diversamente dalla moda, dal cibo, il design, l’architettura. Eppure la nostra creatività musicale non ha avuto eguali. Da Mina fino alla Carrà. A meno di non tradurle. Altri, come la Francia, la Spagna e perfino gli anglosassoni, hanno sfruttato il potenziale commerciale dei cantanti per diffondere le loro lingue. Io ho imparato il francese con Becaud e l’inglese con Nat King Cole. Con l’italiano non è stato possibile, perché le nostre succursali delle major discografiche avevano il mandato di lavorare per il mercato interno, senza progetti di varcare i confini. Ma Morandi avrebbe potuto conquistare il mondo, e così Dalla.
Scarsa lungimiranza?
E pure il mancato appoggio delle istituzioni, non importa di che colore fossero i governi. Che non hanno colto l’altezza ingegnosa dei nostri artisti. Non c’è stata divulgazione, promozione, protezione, dialogo con l’estero. Eppure i cantautori hanno toccato vette liriche inimmaginabili: Dalla ha lavorato con il poeta Roversi, Battiato con il filosofo Sgalambro. De Gregori in Titanic racconta la tragedia della nave meglio che nel film. Tranne Dylan o Cohen e qualche chansonnier, chi è riuscito a tanto?
Una supremazia autorale?
Non solo: chiediamoci perché Edoardo Vianello, che era stato a torto relegato nell’immaginario delle estati del boom anni Sessanta, sia ora oggetto di rivalutazione da parte di Myss Keta, o Ornella di Colapesce e Dimartino, e Orietta Berti con Fedez. I giovani si sono accorti che i loro predecessori meritano ben più di un polveroso rispetto. Anche questi che operavano nell’ambito della musica leggera. All’epoca si pensava che, un 45 giri via l’altro, i loro pezzi sarebbero stati consumati in fretta. Invece ce li portiamo ancora nella testa e nel cuore. All’Ariston abbiamo visto Paoli, Vanoni, Di Capri, Al Bano, Ranieri, Pooh: non parevano degli illustri pensionati. E grazie a Morandi tutta l’Italia ha cantato in coro Battisti e Dalla.
I due Lucio. Nati a un giorno di distanza, 4 e 5 marzo 1943. Ottant’anni fa.
Conobbi Dalla alla Rca, proprio grazie a Gino. Era un tipo bizzarro. Io facevo il Dj e grazie a me ebbe il primo successo con Il cielo. Ci aveva legato la passione per il jazz, come con Avati. Ma Dalla ascoltava la musica di tutto il mondo e la reinventava. Passava dal reggae di Disperato erotico stomp al napoletano di Caruso, si innamorava di Nuvolari e poi pareva un profeta su L’anno che verrà. Era il più eclettico. Diceva che in confronto all’immensità delle parole di Era de maggio di Salvatore Di Giacomo, Let it be pareva un jingle.
Battisti?
Rivoluzionò il meccanismo della canzone, che prima di lui aveva attraversato più fasi: in origine melodica con Villa o Achille Togliani, poi Modugno e gli urlatori, infine il rock’n’roll che avevano innescato lo spirito ribelle di Celentano, infine il beat, da cui copiavamo. Battisti mise tutto a soqquadro. Per prima me ne parlò la discografica Christine Leroux, fidanzata con Cino Tortorella, il Mago Zurlì. Era entusiasta di questo giovane che suonava con I Campioni. Incontrai Lucio prima di Mogol.
Dove?
Abitavo nello stesso palazzo del direttore romano della Ricordi. A cena veniva Battisti, ascoltavamo dischi. Con Mogol presero dalla vita vera dei loro amici un sacco di spunti per brani di natura amorosa. In mano a quei due diventavano successi le disgrazie sentimentali altrui.
Compreso lei, Renzo.
Beh, Innocenti evasioni parlava di una mia avventura….
La sua prima incursione a Sanremo?
Non avevo fatto neppure Bandiera Gialla. Mi mandò la Rai con il mitico registratore Nagra a realizzare banalissime interviste. Chiesi a Modugno se fosse emozionato.
Ne ha visti tanti, di Festival.
C’ero anche nel ’67.
Tenco.
Fui l’ultimo a far sorridere Gigi, in camerino. Davanti a lui chiesi a Dalida a quale Madonna si ispirasse per le pose: “All’Incoronata o all’Annunziata?”. Tenco rise. Poi andò a cantare, e più tardi, al ristorante, aveva il volto terreo. Pasticche a parte, gli aveva dato fastidio l’eliminazione in favore de La Rivoluzione di Gianni Pettenati, che apparteneva al nuovo filone della “linea verde” discografica, i brani spensierati. Tenco era fissato con le canzoni di protesta, che stavano passando di moda. Ciao amore ciao non era un capolavoro come Lontano Lontano, che mi aveva fatto sentire in anteprima. Ma Gigi ci credeva, temeva di sentirsi superato.