la Repubblica, 12 febbraio 2023
Verga fotografo
Ritratti di famiglia, ma anche di contadini, pastori, persone semplici Vanno in mostra a Seriate, Bergamo, gli scatti dello scrittore veristaLuigi Capuana parlava molto, Émile Zola era taciturno, Giovanni Verga fumava una sigaretta dietro l’altra. L’incontro leggendario della trinità verista avvenne un giorno imprecisato del 1894 nella casa romana di Capuana, in via in Arcione; ebbe due testimoni umani, gli scrittori in erba Ugo Ojetti e Lucio D’Ambra, e uno inanimato: una macchina fotografica. Apparteneva al padrone di casa, che amava firmarsi “fotografo”, e affidata a D’Ambra scattò un triplo ritratto che non pare essere sopravvissuto al tempo. Quella presenza chimico- meccanica era forse qualcosa che univa i tre scrittori più delle rispettive teorie narrative, su cui, pare, quel giorno discussero animatamente. Non sappiamo se Verga in quell’occasione ammise di avere anche lui ceduto a una delle passioni borghesi più travolgenti di fine secolo (l’altra era la bicicletta). Di avere cioè cominciato a fotografare già da un quindicennio, dopo aver tanto preso in giro il collega Capuana (che poi gli fece da maestro di tecnica) per quel passatempo che faceva, a suo dire, «sciupare un prezioso capitale di tempo e di ingegno».Ne sciupò dunque anche lui, e non poco, nell’arco di oltre vent’anni. Ma per quasi un secolo non si seppe. Poi, nel 1966, un nipote di Verga confidò che «anche lo zio fotografava» a un professore catanese, Giovanni Garra Agosta, e questi andò a cercare fra le vecchie cose della casa di Vizzini, e trovò una scatola con la bellezza di 448 fra lastre di vetro e fotogrammi su pellicola. Se ne fecero mostre, pubblicazioni e anche una trasmissione Rai a cura di Francesco Crispolti. Da decenni, insomma, sappiamo che il padre deiMalavoglia era anche fotografo: ma ugualmente, ci avverte il curatore Roberto Mutti, la mostra che apre oggi (fino al 4 marzo) al Palazzo Comunale di Seriate (Bergamo) sarà per molti una sorpresa. E l’andamento carsico della Segreta mania di Verga, nascosta, scoperta, dimenticata, riscoperta, forse corrisponde al mistero di quella sua seconda, taciuta, inspiegata vocazione. Qualcosa, in quella doppia materia d’espressione, non quadra.Potremmo dire che non c’è «nulla di più oggettivo e impersonale, di più vero, di più verista della fotografia»: ma non è così, e Leonardo Sciascia subito si correggeva: «è probabile anzi la considerassero poco verista, stante la necessità della posa, di quel tanto di finzione che la posa comportava, e la mancanza del colore». Però è pur vero che gli altri due partecipanti a quell’incontro ne erano entusiasti: Zola giurò che «non si può sostenere di aver veramente visto qualcosa finché non la si è fotografata», e Capuana sospirava: «Se io fossi romanziere come sono fotografo!». Potremmo aggiungere il quarto assente, Federico De Roberto, anche lui fotografo amatore evoluto.E invece la fotografia di Verga è un’incognita, un rebus senza soluzione. Tecnicamente, diciamolo pure, era scarso. Sfocature, orizzonti precari, inquadrature incerte, esposizioni difettose. Lui lo sapeva e nelle veline trovate attorno alle lastre i suoi autografati giudizi sono spesso impietosi: «Non riuscita, peccato». I soggetti, invece, incuriosiscono. La sua prima prova, con una fotocamera di legno presa in prestito da uno zio, nel 1878, è un ritratto; per lunghianni Verga infatti fa solo fotografie da buon borghese, alla famiglia e agli amici, e durante le vacanze a Bormio. Poi però verso il 1887 accade qualcosa. Nel miglior negozio di Milano, in Galleria, compra una fotocamera portatile, una Murer Express 9x12, molto semplice da usare, una specie di scatola da scarpe nera che si può maneggiare senza treppiede. È con questa che comincia a prendere, nei suoi ritorni siciliani, ritratti ai popolani, cominciando dai dipendenti del fondo di famiglia. Campieri, braccianti, famigli, pastori, massari, ma anche nobildonne e galantuomini di paese: è l’umanità che popola le sue novelle che mette in posa spesso impacciata, su sfondi mai troppo significativi. Perché? E cosa intendeva farne? Era un diletto, o aveva un programma?«Gli studiosi verghiani non potranno, in futuro, non tenere conto di questo eccezionale materiale fotografico», ebbe a dire Vittorio Spinazzola ai tempi della prima scoperta. Ma quando Verga fotografa i suoi popolani ha già scritto quasi tutte le sue opere maggiori. Insomma, è difficile sostenere l’ipotesi che fotografasse tipi umani da trasformare in personaggi letterari. Forse andò più vicino al punto Enzo Siciliano: quelle immagini «ci dicono della vita quotidiana di Verga assai più di quel che ci dicesse il suo avaro e talvolta sciatto epistolario». Ma la domanda resta: che ne faceva, una volta scattate? Un altro mistero è la sparizione delle stampe. Del fotografo Verga abbiamo un archivio di soli negativi. Per la mostra, la Fondazione 3M ha realizzato stampe moderne da quelle matrici, basandosi sulle fotografie di Capuana come modello per avvicinarsi alla densità e al tono che dovevano avere le stampe perdute. Che pure esistev ano, Verga nelle lettere allude ogni tanto all’invio di qualche fotografia. Forse, appunto, non le conservava. Erano magari per lui fotografie relazionali: omaggi potrebbero essere i suoi ritratti a Eleonora Duse nelle vesti di Santuzza, o a Virginia Reiter in quelli della Lupa. Oppure funzionali: qualche raro indizio sembra mostrare che le mandasse agli illustratori dei suoi libri, e agli scenografi e ai costumisti delle loro riduzioni teatrali.Eppure, riguardiamoli, quei gruppi di contadini, quelle donne un po’ timide e sfuggenti. Davvero non c’è relazione con le pagine in cui i loro avatar prendono vita? E se la cronologia è indiscutibile, chi ha detto che le fotografie, anziché l’ispirazione, non potessero essere la verifica dell’immaginario dello scrittore? O forse anche il suo fissaggio, a beneficio dell’epoca delle immagini, ormai incipiente? Fra le molte foto deboli, ce n’è una perfetta: la bambina affacciata alla finestra di una casa di pietra di Novalucello, una delle ultime lastre, del 1911. Luchino Visconti sembra rievocarla in La terra trema. In quelle scatole nascoste c’era forse il viatico che il secolo dei romanzi affidava al secolo del cinema.