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 2023  febbraio 11 Sabato calendario

Processo a Stalin

Il 5 marzo ricorrono i settant’anni dalla morte di Iosif Stalin (1878-1953), il despota comunista al quale è stato appena inaugurato un nuovo monumento a Volgograd (la ex Stalingrado). Proprio da questo episodio siamo partiti per avviare un dibattito sulla figura di Stalin con gli storici Luciano Canfora, firma del «Corriere», ed Ettore Cinnella, esperto di vicende sovietiche. Come interpretarlo?
ETTORE CINNELLA — È in corso da tempo in Russia una rivalutazione di Stalin. Il presidente russo Vladimir Putin detesta Lenin e la rivoluzione bolscevica, che accusa di avere distrutto la Russia prerivoluzionaria, mentre ammira la politica estera di Stalin, il modo in cui consolidò e ampliò i possedimenti dell’impero zarista, vincendo il conflitto contro la Germania nazista.
LUCIANO CANFORA — Il 7 settembre 2008 Sergio Romano sul «Corriere della Sera» scriveva che Stalin per i russi è il creatore dell’industria, il grande suscitatore della riscossa durante la guerra mondiale, il leader che ha dato alla Russia il prestigio di grande potenza. Per Putin, notava Romano, «non è possibile trattare il dittatore sovietico come un buco nero». Io condivido questa valutazione e aggiungo che il «Corriere» si era già espresso così il 6 marzo 1953, alla morte di Stalin, con un articolo di fondo attribuibile al direttore Mario Missiroli, in cui si legge che «quando suonò l’ora della prova suprema l’uomo si mostrò pari a sé stesso e ai compiti che aveva cercato e la storia gli aveva assegnato».
La prova suprema fu lo scontro con la Germania?
LUCIANO CANFORA — Nel XX secolo la Russia perde tutte le guerre, tranne quella. Viene sconfitta dal Giappone, poi nella Prima guerra mondiale e in seguito nella guerra fredda. L’unica vittoria è quella conseguita nella Seconda guerra mondiale, che i russi chiamano «Grande guerra patriottica». A Stalin si deve appunto la torsione verso il patriottismo russo dell’esperienza sovietica. La storia è fatta di trasformazioni perenni. Mussolini arrivò addirittura a scrivere che Stalin era divenuto fascista e non voleva ammetterlo. Al di là del motivo propagandistico, il dittatore italiano coglieva la direzione nazionale in cui l’Urss si era indirizzata già con la scelta del «socialismo in un solo Paese». Tutto ciò spiega la rivalutazione della figura di Stalin nella Russia attuale, che oltretutto è in guerra, quindi tende a esaltare il simbolo delle passate vittorie.

Tra Lenin e Stalin riscontriamo più elementi di continuità o di mutamento?
ETTORE CINNELLA — Fu Lenin a gettare le basi della tirannide sovietica instaurando un regime efferato e impopolare. Tuttavia non giunse a macchiarsi delle orribili nefandezze perpetrate dal suo successore: a differenza di Stalin, egli conservò un barlume di moralità, se non altro nei rapporti con i compagni di partito. Prima di morire, Lenin giunse a individuare taluni mali del sistema sovietico, suggerì un diverso approccio verso il mondo contadino e intuì il pericolo rappresentato da Stalin, ma non ebbe il coraggio di riflettere sulle proprie colpe politiche. Inoltre, inasprì la dittatura e continuò a perseguitare i partiti socialisti. I rapporti tra Lenin e Stalin furono molto stretti almeno fino al 1922. Ma nel famoso Testamento, cioè nelle note del 1922-1923 scritte durante la sua grave malattia, Lenin formulò un giudizio assai negativo su Stalin.
Quindi prevalgono le differenze?
ETTORE CINNELLA — Vorrei ricordarne una molto profonda. Stalin, all’inizio degli anni Venti, ebbe una formidabile intuizione: colse la natura della società di massa. Quando Lenin creò il partito bolscevico, mirò a una organizzazione elitaria (il partito dei rivoluzionari di professione). Stalin, invece, pur convinto che il partito dovesse essere una sorta di ordine cavalleresco, intuì che sulla ribalta della società moderna si muovono le masse e che queste masse vanno domate, organizzate, guidate, manipolate. Lenin rimase un rivoluzionario giacobino e ottocentesco, un illuminista e razionalista. La comprensione dei tratti essenziali della moderna società di massa accomuna invece Stalin a Hitler e a Mussolini. Bisogna quindi distinguere tra il comunismo giacobino di Lenin e il comunismo totalitario di Stalin.
LUCIANO CANFORA — Un cambio di linea sostanziale viene attuato già da Lenin con la Nuova politica economica (Nep), l’apertura al mondo contadino che succede alle scelte radicali del comunismo di guerra. Il suo atteggiamento è spesso empirico, pragmatico: si pensi al rapporto che instaura con la Germania imperiale, l’unico Stato che riconosce già nel 1918 la Russia sovietica dopo il trattato di Brest-Litovsk. Stalin a sua volta cambia linea infinite volte. Isaac Deutscher, molto critico verso di lui, pubblica subito dopo la sua morte un libro intitolato La Russia dopo Stalin, dove scrive che se Lenin fosse sopravvissuto avrebbe dovuto scegliere e probabilmente si sarebbe comportato come il suo successore.
Prevale dunque la continuità?
LUCIANO CANFORA — Questa perlomeno è l’opinione di Deutscher, analista molto acuto. Stalin in un primo tempo ha a sua volta un approccio morbido verso il mondo contadino, al contrario di Trotsky. Ma poi Stalin con la collettivizzazione delle terre attua in certo senso la politica di Trotsky con conseguenze tremende. Lo stesso vale per la politica estera. Tra l’intervento in Spagna a favore della Repubblica e il patto con il Terzo Reich c’è un’enorme differenza. L’ultimo discorso di Stalin al XIX Congresso del Pcus, nel 1952, è un’esortazione ai partiti comunisti affinché risollevino la bandiera delle libertà democratiche, abbandonata dalla borghesia. Tra quelle parole e la linea dei primi anni Trenta che bollava i socialisti come «socialfascisti» c’è un abisso. Insomma le svolte politiche sono connaturate alla gestione del potere e avvengono sia sotto Lenin sia sotto Stalin.
Come giudicare allora la scelta di liquidare i contadini benestanti, i cosiddetti «kulaki»?
ETTORE CINNELLA — La collettivizzazione forzata delle campagne, voluta e attuata da Stalin a partire dal 1929, segnò l’atto di nascita del sistema sovietico e fu il perno fondamentale dell’economia fino alla fine dell’Urss. Da un giorno all’altro, decine di milioni di contadini furono costretti ad abbandonare il loro modo di vivere e di produrre e ad entrare nelle fattorie collettive, dove erano destinati a lavorare pressoché gratuitamente per lo Stato. I contadini furono ridotti al rango di servi della gleba. Di qui la loro resistenza, le rivolte, le proteste: una guerra tra Stato comunista e mondo rurale, che provocò il caos produttivo, oltre a spaventosi costi umani (centinaia di migliaia tra deportati, arrestati, fucilati, morti negli scontri). Per soggiogare i ribelli delle campagne, Stalin non esitò alla fine a decimare per fame la popolazione contadina: perirono così di stenti circa sei milioni di persone, di cui quasi i due terzi in Ucraina.
Perché una scelta così estrema?
ETTORE CINNELLA — La collettivizzazione staliniana differiva dal modello di sviluppo, pur centralistico, dello stesso Trotsky; ed era l’opposto della via al socialismo proposta da Nikolaj Bukharin, che puntava sulla crescita graduale e sulla floridezza delle aziende contadine. Quali ragioni abbiano spinto Stalin a un mutamento così brusco e radicale, non è facile dire. Fino a poco prima, egli condivideva il programma di Bukharin. Certo è che, una volta imboccata la nuova via, Stalin legò il suo nome e la sua concezione del socialismo alla industrializzazione accelerata e alla collettivizzazione integrale.
Quali conseguenze ebbe quella svolta?
ETTORE CINNELLA — I risultati furono disastrosi sotto tutti gli aspetti. La rigida pianificazione burocratica, a costo di enormi sprechi, creò una mastodontica industria pesante, ma non riuscì ad assicurare beni di consumo e servizi decenti ai sudditi dell’Urss. Oltre a provocare stragi e sofferenze inenarrabili, la collettivizzazione distrusse per sempre l’agricoltura, che rimase il tallone d’Achille dell’economia sovietica. Il modello di Bukharin era non solo più umano, ma anche più produttivo. L’agricoltura sovietica necessitava di moderne tecnologie, non di una guerra spietata contro i contadini. Inoltre, il governo disponeva di esperti di agricoltura, i quali avrebbero saputo dare validi consigli e suggerire soluzioni adatte ai contadini russi. Inutile dire che furono tutti emarginati, epurati o soppressi.
LUCIANO CANFORA — La brusca svolta della collettivizzazione delle terre, con tutte le sue conseguenze negative, fu la mossa più discutibile di Stalin in quel periodo. Peraltro anche dopo la sua morte l’agricoltura sovietica continuò a soffrire, tanto che ai tempi di Brežnev Mosca importava frumento dal Canada e dagli Stati Uniti, benché in epoche precedenti la Russia fosse stata il granaio d’Europa. È evidente che l’agricoltura collettivizzata non funziona. Quando in Russia si è tornati alla proprietà privata della terra, la situazione è molto migliorata e non c’è stato più bisogno d’importare grano.
Ma come spieghiamo la mossa di Stalin nel 1929?
LUCIANO CANFORA — Fu una scelta dottrinaria, legata all’idea di costruire il socialismo mediante la statalizzazione della proprietà e l’industrializzazione. È puerile immaginare i personaggi storici come inclini alla crudeltà in quanto tale. Stalin non agì così per cattiveria. Siamo di fronte a un colossale errore ideologico, perseguito con durezza nella convinzione di essere sulla strada giusta per edificare il socialismo.
Un’altra scelta importante di Stalin furono le purghe nella seconda metà degli anni Trenta.
ETTORE CINNELLA — Il Grande Terrore del 1937-1938 decimò lo stesso partito bolscevico. Secondo i dati, rimasti a lungo segreti, della commissione d’inchiesta nominata in epoca kruscioviana, nel 1937 e nel 1938, in tempo di pace, vennero fucilate circa 700 mila persone. La mattanza ebbe due aspetti principali. Il primo fu lo sterminio della vecchia guardia bolscevica e anche di molti funzionari del partito fedeli a Stalin. Il secondo aspetto riguardò la furiosa vendetta contro la società.
Esaminiamo i due aspetti.
ETTORE CINNELLA — Stalin voleva liberarsi dei vecchi e prestigiosi compagni d’arme di Lenin, non solo eliminandoli, ma anche umiliandoli e presentandoli come traditori: di qui gli spettacolari processi di Mosca. Stalin sapeva che essi lo disprezzavano, nonostante le pubbliche adulazioni. Quanto ai funzionari di partito massacrati, la loro eliminazione si spiega con il fatto che, dopo la vittoria nella realizzazione del programma statalistico, essi, pur stalinisti convinti, erano inclini alla riconciliazione con la società straziata e atterrita e, per di più, tendevano inevitabilmente a creare centri di potere locali. Le sanguinose epurazioni nei ranghi del partito avevano l’obiettivo di rinnovare i quadri con comunisti giovani e devoti a Stalin, i quali ignorassero le passate controversie interne. La società, infine, fu colpita perché risultava ancora estranea e ostile al partito (lo rivelavano i rapporti di polizia): milioni di uomini non potevano dimenticare le atroci sofferenze patite. Debolissimo era il consenso di cui Stalin e il partito godevano nella società: solo un esile strato di giovani entusiasti e di operai fanatici credeva nella propaganda ufficiale.

LUCIANO CANFORA — Bisogna guardare ai fatti storici in maniera non emotiva, ma razionale, anche quando parliamo di eventi terribili. Del resto certe atrocità non appartengono solo al XX secolo. Credo che sia importante una valutazione dello scrittore tedesco Lion Feuchtwanger, che andò in Urss all’epoca dei grandi processi e pubblicò il libro Mosca 1937. Qui il romanziere esprime un concetto che poi ritorna nel discorso che Alcide De Gasperi tenne al teatro Brancaccio di Roma nel luglio 1944. Feuchtwanger sostiene che in Urss ci fu una guerra civile tra Stalin e i suoi oppositori. Non siamo di fronte a un tiranno spietato che elimina un gran numero di persone per il gusto di uccidere. Si tratta di un conflitto tra rivoluzionari, come si era già visto in Francia dopo il 1789. Allo stesso modo De Gasperi, nel discorso citato, evoca i processi di Mosca e dice di avere saputo, «da fonti americane sicure», che non si trattava di una messa in scena. «Gli imputati non erano sabotatori volgari, ma vecchi rivoluzionari idealisti che non accettavano la vittoria dello stalinismo». Torniamo alla realtà di una guerra civile prolungata: una gigantesca tragedia, ma di natura politica, non psicopatologica.
Il patto nazi-sovietico Molotov-Ribbentrop contribuì a scatenare la Seconda guerra mondiale?
ETTORE CINNELLA — La causa fondamentale del conflitto fu la volontà revanscistica ed espansionistica della Germania nazista. La guerra avrebbe potuto essere evitata solo accogliendo tutte le richieste di Hitler. Il Führer nazista era capace di mosse azzardate, ma sapeva valutare con realismo i rapporti di forza e aveva un notevole fiuto strategico-militare. Per questo nell’estate 1939 cercò l’accordo con Stalin, che gli avrebbe evitato il pericolo di combattere su due fronti. Per parte sua Stalin, il quale in precedenza aveva temuto la volontà espansionistica della Germania, accettò le insistenti profferte del dittatore nazista. In fondo, per il padrone del Cremlino l’importante era la salvezza dell’Urss: per lui le democrazie borghesi e i regimi fascisti, gli uni e gli altri capitalistici, potevano essere alleati o avversari a seconda della convenienza. Il patto Molotov-Ribbentrop fu un cinico matrimonio d’interesse, che giovò a entrambi i contraenti. I vantaggi maggiori li ottenne l’Urss, che poté mettere le mani su vasti territori senza colpo ferire. Ma, grazie al patto di non aggressione e alle materie prime sovietiche, Hitler condusse con successo la guerra sottomettendo la Francia; furono la fermezza e il coraggio degli inglesi a impedire la sua completa vittoria.
Però poi si arrivò allo scontro tra Urss e Terzo Reich
ETTORE CINNELLA — Hitler non si fece mai illusioni su Stalin, né rinunciò al suo programma di conquista dell’Urss e di creazione del razzistico «ordine nuovo europeo», che consisteva nella riduzione in semischiavitù dei popoli slavi. Neppure Stalin credette nella possibilità di un’alleanza strategica con la Germania; tuttavia, a differenza di Hitler, per qualche tempo egli pensò che, in fondo, il regime nazista piccolo-borghese fosse migliore delle plutocrazie capitalistiche e che l’accordo con Berlino potesse durare. Hitler fu più abile e scaltro di lui, cogliendolo alla sprovvista e invadendo l’Urss. E tuttavia la guerra razziale condotta dai nazisti fu per molti versi la salvezza di Stalin, perché gli invasori si dimostrarono peggiori della pur terribile tirannia locale. Quando i russi capirono che il Terzo Reich intendeva schiavizzarli, scelsero di sostenere il regime comunista. Altri popoli dell’Urss rimasero ostili al Cremlino e furono poi perseguitati e deportati dopo la guerra.
LUCIANO CANFORA — Nella sua storia della Seconda guerra mondiale Winston Churchill ammette che la Gran Bretagna commise un grave errore nel 1939 tirando in lungo le trattative a tre, con la Francia e con l’Urss, per una coalizione antitedesca che non si fece. Lo storico inglese A. J. P. Taylor, nel saggio Le origini della Seconda guerra mondiale, sostiene ovviamente che la responsabilità per lo scoppio del conflitto è dell’aggressività nazista, ma aggiunge che la politica di Londra conciliante verso il Terzo Reich e prima ancora la gestione miope del trattato di Versailles contribuirono a portare l’Europa verso l’abisso. Quanto al patto Molotov-Ribbentrop, Taylor osserva che Mosca non aveva altra scelta dinanzi all’ostilità tedesca, all’avversione polacca, alla diffidenza britannica: l’unica possibilità era rompere l’isolamento trattando con Berlino. Credo che sia un’analisi fondata sul piano politico-diplomatico.
Il patto Mosca-Berlino durò quasi due anni.
LUCIANO CANFORA — Sì, ma fra crescenti difficoltà. Vjaceslav Molotov, nelle sue memorie, racconta del viaggio compiuto a Berlino nel novembre 1940 da ministro degli Esteri sovietico. Hitler, sostiene, non era pazzo, ma furbo: voleva indurci ad attaccare i britannici in India, ma noi rifiutammo. Mosca e Berlino non erano destinate a incontrarsi, tanto meno per ragioni ideologiche: furono le circostanze a spingerle l’una verso l’altra.
Poi ci fu l’invasione tedesca.
LUCIANO CANFORA — Anche su quell’evento Stalin viene messo sotto accusa. C’è chi dice che l’attacco del Terzo Reich fu una mossa preventiva, perché i tedeschi si erano resi conto che i sovietici stavano per aggredirli, mentre molti altri, compreso Krusciov, sostengono che Stalin fu colto di sorpresa. Ovviamente si tratta di tesi incompatibili. E in tutti e due i casi mi sembra che la passione prevalga sulle ragioni della ricerca storica.
Passiamo alla guerra fredda. Quali responsabilità ebbe Stalin nel suo scoppio?
ETTORE CINNELLA — Verso la conclusione della guerra Stalin sembrò accarezzare il sogno di una sorta di «finlandizzazione» dell’Europa, un’inclusione morbida nella sfera d’influenza sovietica, resa possibile dal ritorno in patria delle truppe americane e dall’enorme prestigio acquisito dall’Urss nella sconfitta del nazismo. Sta di fatto che egli permise l’avvio di un dibattito sulle vie nazionali al socialismo persino nei territori occupati dall’Armata Rossa. Tuttavia, Stalin capì subito che il gioco era pericoloso e poteva ritorcersi contro il suo regime, messo in difficoltà dalla miseria generale, dall’aspirazione dei russi a un mitigamento della dittatura e dall’esplosione di prolungate insurrezioni nell’Ucraina occidentale e nei Paesi baltici, desiderosi di riconquistare l’indipendenza. Per salvare il regime, Stalin doveva reprimere ogni barlume di dissenso. Capì che gli americani non se ne sarebbero andati e giunse alla conclusione che per l’Urss era inevitabile un nuovo conflitto mondiale. Capì anche che i tentativi insurrezionali, come quello in Grecia, non avevano per il momento prospettive di successo. Il regime staliniano divenne, all’interno, ancor più duro e oppressivo e, in politica estera, si preparò allo scontro finale con il mondo capitalistico. Consapevole della debolezza militare dell’Urss rispetto agli Usa, Stalin puntò al logoramento dell’avversario, provocandolo e tastando la sua reazione senza giungere ad una guerra aperta. Si spiegano così prima il blocco di Berlino (1948-1949) e poi la guerra di Corea (1950-1953).
Ci fu il rischio di un conflitto atomico?
ETTORE CINNELLA — Gli ultimi tempi del regime staliniano furono così cupi e oppressivi che gli stessi antichi collaboratori di Stalin avvertirono il bisogno del cambiamento. La morte provvidenziale del tiranno, incupito e arteriosclerotico, salvò il mondo dalla terza guerra mondiale, con l’armistizio in Corea, e portò a una stagione di riforme.
LUCIANO CANFORA — Stalin commise molti errori nella parte iniziale della guerra fredda. Il più grave fu il blocco di Berlino Ovest, una mossa che poteva mettere a rischio la pace e che comunque gli occidentali smontarono con il ponte aereo. Ma ad avviare la guerra fredda fu Hiroshima, l’uso della bomba atomica contro il Giappone da parte degli Stati Uniti: un monito rivolto dal presidente Harry Truman all’alleato sovietico per dimostrare la forza superiore della superpotenza americana. Quando nel 1946 Churchill a Fulton denuncia l’esistenza di una cortina di ferro calata dall’Urss sull’Europa orientale, la guerra fredda è avviata da tempo.

Quindi Stalin non ha responsabilità?
LUCIANO CANFORA — C’è da parte sua la volontà di logorare gli occidentali, ma si tratta evidentemente di un intento reciproco. Stalin nel 1949 pubblica Questioni del leninismo, libro in cui sostiene che la guerra è più probabile tra le potenze capitalistiche che tra di esse e l’Urss. Da una parte è consapevole della propria inferiorità militare, dall’altra conta sulle contraddizioni interne al campo imperialista. Quanto alla sua volontà espansionista, vale la pena di ricordare il libro di Wilfried Loth Il figlio poco amato di Stalin (tradotto con il titolo Figliastri di Stalin), nel quale l’autore dimostra che il leader sovietico riteneva difficile mantenere il controllo della Germania Est, così lontana dal centro dell’impero. Nacque così la proposta sovietica del 1952 di realizzare la riunificazione tedesca a patto che la Germania unita non entrasse in alcuna alleanza militare. Un’ipotesi che fu seccamente respinta dal cancelliere tedesco-occidentale Konrad Adenauer. Allo stesso modo Stalin continuò a coltivare i rapporti con i nazionalisti cinesi anche quando i comunisti erano ormai sul punto di vincere la guerra civile: motivo per cui la Repubblica popolare di Mao Zedong non fu mai un satellite di Mosca.
In conclusione che giudizio si può dare di Stalin?
LUCIANO CANFORA — Nel discorso del Brancaccio De Gasperi lo definì «geniale», un termine che io preferisco non usare. Ma lo adopera anche Benedetto Croce, nella sua Storia d’Europa del 1932, in cui sostiene che l’Urss, pur retta da un potere ferreo, è destinata a dissolversi, anche perché non è affatto certo che la provvidenza continui ad assicurare al governo sovietico capi geniali come Lenin e Stalin. Insomma anche personaggi insospettabili mostrarono di apprezzare il leader sovietico. Io direi che però la definizione più calzante è di Vittorio Strada, che di Stalin disse: grande rivoluzionario, grande statista, grande criminale.