Tuttolibri, 11 febbraio 2023
Intervista a Kincaid Jamaica
«Il direttore Shawn che entra nel mio ufficio, inizia a camminare avanti e indietro cercando di trattenere l’emozione e mi dice quanto ammira il mio racconto Girl». È questo il ricordo che Jamaica Kincaid, 73 anni, tiene più caro tra quelli che riguardano il New Yorker, il magazine nel quale ha lavorato per vent’anni e che, nel 1978, pubblicò la sua primissima prova da narratrice. Girl, che a quei tempi non venne molto apprezzato e che poi finì in un mucchio di antologie, è composto unicamente da una serie di istruzioni su come una ragazza dovrebbe comportarsi e inizia con la raccomandazione di separare i panni bianchi dai colorati (i primi vanno lavati il lunedì, i secondi il martedì, e poi vanno stesi così e così…). Anche le due storie di Biografia di un vestito sono costruite attorno a dei capi d’abbigliamento (un vestitino e un cappello) e affondano nei ricordi personali di Kincaid. Tra le altre cose, come le conseguenze del colonialismo, parlano del modo in cui le stoffe e le forme che scegliamo di metterci addosso (o che qualcun altro scegli per noi, se siamo ancora troppo piccoli) contribuiscono a definirci. Nella prima, la narrazione prende il via da una vecchia fotografia in bianco e nero di lei a due anni, nella natia Antigua, con un abito di popeline giallo della «stessa sfumatura di giallo della farina di mais cotta, che mia madre era sempre ansiosa di darmi in una forma o in un’altra».Ha ancora quella fotografia?«Sì, l’originale, danneggiata da un piccolo allagamento avvenuto nel seminterrato di casa mia. L’ho fatta restaurare, anche se in realtà non ho bisogno di lei per ricordarmi quel giorno in cui ho compiuto due anni».Anche Annie Ernaux, un’altra autrice che scrive sulla propria vita, ha usato spesso delle fotografie come motore e parte integrante della narrazione.«Credo che per una persona come me, con la mia storia, una fotografia sia una prova in più che le cose che sa, e tiene dentro di sé, continueranno ad esistere anche nella realtà. Non sarebbe bello avere una fotografia di quell’uomo nato a Genova, che navigò in quello che oggi è il Mar dei Caraibi, capitanando la Pinta, la Nina e la Santa Maria e proclamando che tutto ciò che vedeva diventava immediatamente proprietà del re e della regina di Spagna? Avrei voluto una fotografia di quel momento esatto che diede inizio alla rapida discesa delle diverse tribù europee verso il puro male».Nei suoi libri ricorre spesso la relazione che instauriamo con i vestiti. È un modo per indagare l’identità?«Per me, e per il popolo da cui provengo, parlare dei nostri vestiti e dei tessuti con cui sono fatti è un modo per ricordare a noi stessi quegli eventi che ci hanno portato fino al presente. Per esempio, parlare di un vestito di cotone può essere un modo per evocare il ruolo che siamo stati costretti a svolgere nel portare il cotone a diventare il tessuto naturale forse più usato oggi al mondo. Una camicia o un vestito di calicò è invece un modo per ricordare che gli europei rubarono questo tipo di tessitura del cotone alla città di Calcutta, in India. Infine, il percalle del vestito che sto indossando ora: proveniva originariamente dalla Malesia e venne introdotto in Europa dagli olandesi».Che rapporto ha con la moda?«Ricordo che quando ero una bambina, e la nostra famiglia si allargò diventando quindi ancora più povera, non avevamo mai abbastanza soldi per comprare la stoffa per confezionare la mia uniforme scolastica. Spesso arrivavo così in ritardo a ritirarla che era già finita, e io mi ritrovavo ad avere la gonna di una tonalità diversa da quella della camicetta, il che rendeva chiaro a tutti quanti quale fosse la mia situazione: ero povera. La me adolescente si vergognava molto di essere povera e, naturalmente, di non avere l’aspetto di tutti gli altri. Il mio rapporto con la moda è sempre stato piuttosto intenso anche se ultimamente, con l’avanzare dell’età, non riesco più a dedicarle molto tempo».La sua scrittura è piena di cose, di oggetti. Il poeta William Carlos Williams diceva: “Non ci sono idee se non nelle cose”.«Mi permetta di fare il bastian contrario, anche se sono d’accordo con William Carlos Williams. Che cosa sarebbero le cose senza di noi? E noi senza di loro? Sono sicura che le “cose” siano tristi di vederci andare via, esattamente come noi lo siamo di vedere andare via loro».Come è stato avere vent’anni nella New York degli anni Settanta, quella di Patti Smith, Andy Warhol, della scena punk e di tutto quel mondo?«A quei tempi non mi interessava essere famosa, e non perché fossi virtuosa, ma solo perché allora la maggior parte delle persone serie non era interessata alla fama, ma a essere brava in quello che faceva. Mi piaceva andare al CBGB, al Milk Bar e in quei posti e facevo da corista a una donna di nome Holly Woodlawn che faceva parte della Factory, ma per me era soltanto un modo per divertirmi. Volevo essere una grande scrittrice, non una persona famosa».È vero che scrive ogni suo libro sperando, alla fine, di essere un po’ cambiata rispetto a quando lo aveva iniziato?«Sì, ma con mia sorpresa e disappunto rimango sempre la stessa, cioè incapace di scrivere un libro migliore di quello che ho appena completato. Niente però mi ispira di più del fallimento, e quindi riparto di nuovo».Da sempre scrive e parla di colonialismo. Che cosa ha pensato quando è morta la Regina Elisabetta II?«È un peccato che debbano morire proprio tutti: certe persone – le cose da cui provengono e le cose che provengono da loro – dovrebbero morire, mentre il resto di noi dovrebbe vivere la vita che vuole per sempre. Nel caso della Regina Elisabetta, lei, tutto ciò che da cui proviene e tutto ciò che deriva da lei, sarebbe dovuto morire molto tempo fa».Ha letto l’autobiografia del principe “in esilio” Harry?«Sì, e mi è piaciuta molto, per questo mi sento di esonerarlo dalla “maledizione” che ho lanciato a sua nonna. Proprio in questi giorni, sto preparando l’uniforme da giardinaggio che indosserò nella stagione che sta arrivando e tra gli indumenti che ho scelto c’è una maglietta con su scritto: “Team Harry e Meghan”. Nel complesso, credo che non si debbano mai voltare le spalle a una donna nera e a suo marito».È nota la sua grande passione per il giardinaggio. Come sta il suo giardino, oggi, e qual è la sua stagione preferita in assoluto?«Dunque, il giardino ora è ricoperto da circa mezzo metro di neve. Ho appena visto un branco di cervi affamati che camminava tra i campi in cerca di cibo, e sono felice di dire che tra le cose che non troveranno ci sono le foglie dei miei rododendri, perché per proteggerle dai parassiti a quattro zampe ho avvolto tutte le mie piante nella iuta – una fibra originaria del Bengala. Nel mio mondo, qui in Vermont, la stagione che amo di più è di sicuro la primavera. Se dovessi dividere i dodici mesi dell’anno a beneficio del mio giardino, farei durare la primavera da febbraio a maggio, l’estate da giugno a ottobre, l’autunno da novembre a dicembre e all’inverno assegnerei solo il mese di gennaio».Quanto sono legati per lei il giardinaggio e la scrittura?«Non è un “legame” perché, per me, sono davvero inseparabili. Non posso esserne del tutto sicura, ma credo che se in principio fu il “verbo”, allora quel verbo, quella parola, dev’essere essere per forza “giardino"».