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 2023  febbraio 11 Sabato calendario

Mishima inedito

In punta di penna, in libreria per Feltrinelli, è un romanzo epistolare pubblicato su rivista alla fine degli anni 60 e sinora inedito in Italia. Dopo i recenti Vita in vendita e La scuola della carne, prosegue la riscoperta della produzione minore di Yukio Mishima, uno degli autori giapponesi più noti e tradotti del Novecento.
In punta di penna – scandito da lettere, biglietti e telegrammi – è una cinica partita a scacchi sui rapporti di coppia. Un romanzo pop non lontano dello spleen delle opere maggiori. In uno dei passaggi finali si legge: “Quando si prende la penna in mano, è necessario farlo avendo ben presente che all’altro, di noi, non importa assolutamente nulla”. Un paradosso per chi ha consacrato i suoi 45 anni di vita a una vocazione che lascia in eredità decine di titoli.
Yukio Mishima, nom de plume di Kimitake Hiraoka, nasce nel 1925 a Tokyo. Si laurea in Giurisprudenza nel 1957 e sconta un breve purgatorio come impiegato ministeriale prima di bussare alla porta del futuro Nobel Yasunari Kawabata, con il quale instaura un rapporto maestro-discepolo. Si impone a 24 anni con un esordio che attinge con spudoratezza alla sua parabola autobiografica. In Confessioni di una maschera un giovane a cui “difetta in via assoluta qualsiasi forma di voglia carnale per l’altro sesso” impara a vivere dissimulando le proprie pulsioni. Sposato e con due figli, l’omosessualità di Mishima resta un tabù per i suoi eredi. La figlia alcuni anni fa è riuscita a ottenere il sequestro di un libro nel quale un uomo svelava la sua relazione clandestina con lo scrittore. Eppure ambiguità e scarto dal conformismo rappresentano la cifra costante dei suoi capolavori più celebrati. In Colori proibiti un anziano scrittore trasforma nel suo strumento di vendetta un giovane adorato dalle donne ma segretamente omosessuale. Il patto è che il giovane seduca e poi abbandoni quelle stesse donne che hanno umiliato l’anziano scrittore. Il padiglione d’oro racconta la vicenda di un buddista deforme che dà fuoco al padiglione di un santuario, famoso monumento artistico. Il piromane è ossessionato dalla bellezza del padiglione e la sua distruzione diventa per lui il simbolo di una rinascita. Il sapore della gloria ha al centro un ragazzo che con la sua banda di coetanei medita un piano per eliminare l’amante della madre perché l’uomo, ufficiale di marina, mostra di volersi uniformare ai disvalori borghesi.
Una letteratura che sfugge a qualsiasi etichetta. Eppure per decenni in Italia Mishima è stato bollato come fascista in virtù del suo fanatismo nazionalista fino a quando Moravia riesce in parte a legittimarlo coniando per lui la definizione di “conservatore decadente”. Marguerite Yourcenar si è spinta più in là: “Mishima va restituito al proprio enigma”. L’autore giapponese è diventato suo malgrado un feticcio identitario grazie a temi come il culto del corpo, il sacrificio di sé, l’ideale fusione tra pensiero e azione. Nel corso degli anni 60 a pubblicare le sue opere da noi è un editore di sinistra come Feltrinelli. Fu il suo clamoroso suicidio a propiziargli il consenso ideologico di una destra che sino ad allora lo aveva ignorato.
Ribattezzato l’Hemingway del Sol Levante, pur esibendo gusti cosmopoliti, rimprovera al suo Paese l’asservimento agli Usa e una corruzione occidentale dei costumi. Ecco allora che riemerge in lui il culto dell’onore dei samurai. Il 25 novembre del 1970 arringa all’aperto una folla di militari nel quartier generale dell’esercito a Tokyo: “Rifacciamo del Giappone quello che era… vi interessa solo vivere, lasciando che lo spirito muoia?”. Poco dopo si toglie di dosso l’uniforme e si sventra lentamente tramite seppuku. Uno dei suoi seguaci infine lo decapita. Un rituale estremo per denunciare la perdita dei valori morali e spirituali. Mishima, diventato un body builder, si era frattanto sfinito in un delirio di perfezione fisica nell’incubo di un corpo destinato a sfiorire. Sognava un’eterna giovinezza. Le ultime parole che scrive prima di congedarsi dal mondo sono la conferma di una uscita di scena perseguita per restare nella memoria collettiva: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.