La Lettura, 11 febbraio 2023
L’ultimo thriller di Scott Turow
Con il suo nuovo thriller Il sospetto Scott Turow ritorna nell’immaginaria Kindle County, la contea nel Midwest americano dove ambientò circa quarant’anni fa il suo primo fenomenale bestseller, Presunto innocente (e una decina di libri successivi), ma lo fa con una protagonista diversa da tutti i precedenti. Per la prima volta non è un avvocato (anche se è la nipote di uno tra i più amati personaggi di Turow, l’avvocato difensore Sandy Stern). Clarice «Pinky» Granum è un’investigatrice privata, ha 33 anni, è bisessuale. E racconta questa storia in prima persona. I diritti del libro sono stati acquistati da David E. Kelley, uno tra gli sceneggiatori e produttori di maggiore successo a Hollywood, che lo immagina come una serie tv. Intanto Kelley e J. J. Abrams hanno iniziato pochi giorni fa a filmare il remake di Presunto innocente per Apple Tv +, con Jake Gyllenhaal come protagonista, espandendo il ruolo della moglie: hanno scelto l’attrice Ruth Negga, rendendo interrazziale la coppia.
Pinky è un personaggio «woke», direbbe il governatore repubblicano della Florida dove lei vive, Ron DeSantis («woke» è un termine che voleva indicare chi è «alleato» delle minoranze, ma è diventato sinonimo di dogmatismo intollerante dell’estrema sinistra). Com’è stato creare Pinky?
«Ho dovuto mettere da parte ogni paura di essere criticato per avere scritto dalla prospettiva di una donna e, specialmente, di una donna queer che ha quarant’anni meno di me. Ovviamente ho parlato con persone dell’età di Pinky che condividono il suo orientamento sessuale ma, alla fine dei conti, doveva essere credibile nel mio mondo immaginario. Per la maggior parte il feedback è stato positivo: chi ama il libro trova Pinky divertente e imprevedibile. Ci sono due tipi di lettori che mi contattano. Ricevo posta su Il sospetto diverse volte alla settimana. Gli ultimi tre messaggi dicevano cose tipo: “Volevo dirle quanto mi è piaciuto questo libro”. Prima di questi, una donna – sono sempre donne e non sono assolutamente la maggioranza dei lettori, ma è come uno stillicidio di messaggi – diceva: “Non posso credere quanto sei woke, tanto da dover scrivere su una lesbica. Non voglio leggere di atti sessuali tra persone come queste”. La mia risposta di solito è: 1) lei ha il diritto di leggere ciò che vuole e io lo rispetto; 2) per me uno dei grandi piaceri di leggere fiction è uscire dai miei confini ed esplorare la vita con gli occhi di persone diverse da me in modi piccoli e grandi».
Anche nella piccola Kindle County i rapporti di potere sono importanti: questa è una caratteristica dei suoi libri. Pinky lavora per un avvocato che difende «The Chief», una donna a capo della polizia, che viene accusata di abuso di potere e molestie sessuali.
«Ho accettato che il tema più ampio e persistente nei miei libri riguardi l’uso del potere, che si tratti del potere pubblico del governo o del procuratore o dei ruoli di potere nei rapporti sessuali. Questo libro capovolge i rapporti di potere stereotipici che vedono l’uomo predatore e la donna vittima. “The Chief” è accusata di usare il suo potere per estorcere favori sessuali. Non sono questioni semplici o chiare come la woke police vorrebbe fare finta che siano. Alcuni lettori sono scioccati che un personaggio con cui simpatizzano possa avere fatto una cosa del genere, ma altri dicono: brava, lui è orribile, se lo merita, lo fa sentire come aveva fatto sentire tante donne».
Lei è stato avvocato e procuratore a Chicago. Da qualche anno è in pensione ma alcune delle storie raccontate in questo libro vengono dalla sua esperienza. Ne emerge un quadro complesso della polizia, in un momento in cui si parla di nuovo della violenza degli agenti in America.
«Dopo l’omicidio di George Floyd sono stato spinto a scrivere della polizia. Nella mia carriera ho incriminato poliziotti per abusi sui cittadini, ho indagato su dipartimenti di polizia in cui la corruzione era routine ma alcuni agenti avevano l’incredibile coraggio di denunciare i colleghi. Sono stato nella Commissione statale per la disciplina della polizia, che assumeva, licenziava e prendeva misure disciplinari, ma ho anche difeso poliziotti in casi civili. È un mondo molto complesso, anche moralmente. Quando andava in onda la serie tv Nypd Blue, il detective Andy Sipowicz di tanto in tanto, se un imputato raccontava troppe fandonie, gli dava un pugno in faccia durante l’interrogatorio. Eppure questo non riduceva la sua popolarità. Gli americani sono sorprendentemente realistici su che cosa richieda essere un poliziotto. Ma non possiamo fingere che gli agenti non trovino gratificante il potere che hanno. Il compenso è magro, dev’esserci qualcos’altro. Per la maggior parte vedono sé stessi come eroi, spesso giustamente. Traggono piacere dall’avere una pistola e dal poter dire alle persone, senza tante spiegazioni: fai quello che dico».
Perché in questo libro sceglie di ritrarre un ex poliziotto – detto «Il Ritz» – che è cattivo fino all’osso?
«È il mio cattivo più cattivo. Normalmente puoi sempre trovare una qualche argomentazione in difesa ma nel suo caso no, tranne forse che è cresciuto nell’abuso di potere: suo padre era un poliziotto corrotto. Ed è brillante, vuole provare in ogni momento d’essere la persona più intelligente. Ho conosciuto poliziotti che finiscono su una sorta di isola morale: in un caso, anche se non fu condannato, sono convinto che un agente fosse diventato un assassino; aveva cominciato a uccidere i trafficanti di droga ai quali estorceva denaro per essere sicuro che non testimoniassero contro di lui. È un deterioramento morale legato a tutto quel potere. Volevo provare a scrivere un personaggio del genere».
Le piace esplorare sempre terreni nuovi?
«All’inizio della mia carriera non scrissi un altro romanzo su Rusty Sabich (il protagonista di Presunto innocente, ndr) perché non volevo essere intrappolato. Provo gioia nel conoscere nuovi personaggi. Certo, chi legge per esempio un nuovo libro di Louise Penny sull’ispettore Gamache prova gioia perché conosce già il personaggio e nota le sottili trasformazioni. Ma come autore trovo che uno degli aspetti più coinvolgenti sia capire un nuovo personaggio. Voglio prendere il volo, anche se sono sconcertato dal modo in cui torno sempre e costantemente all’aula del tribunale: diventa per me un terreno di prova morale, è ineludibile. Cerco ambientazioni e personaggi diversi, ma ammetto che c’è qualcosa di familiare nel tornare in tribunale. A volte mi chiedo se voglia fare qualcosa di diverso; la risposta onesta è no. Mi sento a casa là e non riesco a rinunciare alle complessità di quell’aula che a volte fallisce nel trovare la verità e a volte ci riesce».
Gli americani sono sempre immersi in storie di crimini: il killer degli studenti in Idaho, le sparatorie in California, il giovane afroamericano ucciso da poliziotti neri a Memphis. Guardano in tv i video delle bodycam, i processi. Gli americani vivono i libri che lei scrive.
«E questo ne spiega in parte la popolarità. La gente vede i buoni, i cattivi, i poliziotti, i procuratori e la difesa e vuole sapere che cosa succede in privato a queste persone. Quando mi dicono: gli europei non hanno la pena di morte da generazioni e stanno bene così, io, che pure penso che la pena di morte non sia una buona idea, replico che non puoi paragonare la società americana alle società europee, perché noi abbiamo cinque volte il numero di omicidi pro capite dell’Europa occidentale. Un omicidio è una cosa enormemente distruttiva nella vita di una società: rovescia ogni presupposto, come quello che puoi andare a ballare di sabato sera senza preoccuparti della tua sopravvivenza. È estremamente alienante per una società. E grazie alla nostra Corte suprema e all’orribile e sostanzialmente illegale decisione che continua a ripetere sulle armi, anche un bambino di sei anni può andare a scuola armato. Il crimine ci preoccupa perché siamo costretti ad essere preoccupati».
Lei era inizialmente a favore della pena di morte, poi è diventato contrario.
«Il punto centrale per me è che provo pietà per chi ha perso una persona cara in un omicidio. Capisco che vogliano giustizia. Ma ho sempre creduto che in molti casi esiste una fantasia: che se l’assassino, il cattivo, muore, ciò riporterà in qualche modo in vita la persona che amo. Quando parli a queste persone dopo l’esecuzione, sono molto confuse, non sentono tutto il sollievo che immaginavano di sentire. I fatti non sono cambiati: hanno subito una perdita devastante, ed è vero sia il giorno prima dell’esecuzione dell’assassino sia il giorno dopo».
Lei ha deciso di diventare scrittore a sette anni dopo avere letto «Il conte di Montecristo», ma anche perché sua madre avrebbe voluto fare la scrittrice. Ed è considerato il creatore di un nuovo genere di «legal thriller» che unisce scrittura letteraria e intrattenimento. Chi sono i suoi ispiratori?
«Per la maggior parte autori che ho letto da giovane: letteratura seria. Saul Bellow è molto importante: è di Chicago e mio padre lo aveva conosciuto da bambino. Charles Dickens è un autore che apprezzo sempre di più a mano a mano che divento anziano. E poi ci sono scrittori che cercavano di realizzare quello che volevo fare io: fare incontrare l’intenso realismo psicologico del romanzo – che ti fa pensare di conoscere profondamente un altro essere umano – con l’aspetto propulsivo del giallo. Graham Greene è sempre stato un immenso eroe per me, Ruth Rendell una grande scrittrice, John le Carré ha personaggi davvero profondi come George Smiley. Ma ho imparato da giovane che non importa quanto ammiri un altro scrittore: tu non sei lui o lei, e l’imitazione è morte».
Ha lasciato Chicago per la Florida. Che cosa pensa di Ron DeSantis e delle sue guerre culturali che aprono la strada a possibili ambizioni presidenziali?
«Disprezzo Ron DeSantis, non solo perché sono in disaccordo con le sue politiche ma perché è un demagogo autoritario che usa il potere dello Stato per punire chi è in disaccordo con lui: che si tratti della Disney che non ama la sua legge don’t say gay (che proibisce l’insegnamento dell’identità di genere a scuola fino ai nove anni, ndr) o di funzionari che contavano le morti per Covid in un modo che non gli piaceva (ha fatto incriminare una di loro) o di distretti scolastici che hanno cercato di salvare le vite dei bambini imponendo le mascherine ai quali ha tagliato i fondi statali. È arrogante e gioioso nella sua arroganza e cattiveria. Quando Anthony Fauci annunciò che andava in pensione, DeSantis disse: “Avrei preso quel piccolo elfo per le orecchie e l’avrei scagliato sull’altra sponda del Potomac”. Ci vuole un essere umano atroce per salutare in modo così barbaro la fine di una carriera. D’altro canto, mia moglie Adriane e io abbiamo ancora casa a Evanston, in Illinois, un posto woke, dove la gente vota come noi: Biden ha avuto il 93%. Ma c’è qualcosa di rischioso per l’ordine pubblico quando non sai coesistere con vicini che non condividono la tua visione politica. Perché ci sono così tanti stronzi qui in Florida? Si sono trasferiti qui per non pagare le tasse, per non condividere il peso del bene pubblico. Guidano come se le strade fossero loro. C’è molta gente ricca e bianca che non pensa che la fortuna o il privilegio abbiano a che fare con la prosperità di cui gode. Ti fa infuriare ma dico a me stesso: questa è la vera America. Gioco a golf, ma se si parla di politica dico: stop. Non che non ami il sano dibattito ma non posso cambiare la loro opinione. Non contano i fatti, Fox News li ha resi irrilevanti. Ma è anche possibile che persone che idolatrano Trump siano brava gente: l’ho imparato dai miei vicini. Alcuni sono amici meravigliosi. Però non parliamo di politica».