La Lettura, 11 febbraio 2023
Bambi compie un secolo
Sin dall’incipit si comprende che questa è una storia di piccoli corpi vulnerabili: «Venne al mondo nel più folto del bosco, in una di quelle camerette nascoste tra il verde che sembrano aperte da ogni parte, mentre da ogni parte sono riparate. Lo spazio era pochissimo, appena sufficiente per lui e per la madre». La traduzione italiana è quella, celebre, di Giacomo Prampolini per l’editore Treves, che nel 1930 aveva scommesso su un bizzarro libro pubblicato per la prima volta nel 1923 dall’editore tedesco Ullstein Verlag. E ancora oggi, un secolo dopo, Bambi. Una vita nei boschi dell’austroungarico Felix Salten continua a interrogarci: è una «favola horror», come l’ha definita Stephen King? È una lucidissima metafora della sopravvivenza? O è una fiaba commovente sulla fragilità della natura?
Forse Bambi racchiude tutte queste contraddizioni proprio per la sua natura ibrida: è un classico dell’infanzia, però le numerose edizioni (compresa quella, prestigiosa, della Princeton University Press, l’anno scorso) hanno messo in evidenza i passaggi drammatici e decisamente «adulti» della storia, come la morte della mamma del capriolo. Una sorta di battesimo della vita che il famoso film Disney del 1942 ha portato sui grandi schermi di tutto il mondo. E chiunque abbia visto quel film ricorda bene la scena straziante della perdita, lo sgomento negli occhi dell’animale e quel senso di disperazione senza speranza, di chi soccombe a una legge che appartiene al mondo dei più grandi. Dei disillusi.
Certamente era disilluso il suo autore, Felix Salten. Quando scrisse Bambi non era un principiante, anzi, era un brillante scrittore e giornalista della scena letteraria viennese. Figlio di ebrei immigrati dall’Ungheria, nato Siegmund Salzmann nel 1869, aveva cambiato nome e si era bene inserito nel movimento della Jung Wien, quello dove autori come Hugo von Hofmannsthal e Arthur Schnitzler promuovevano una sensibilità più vicina al simbolismo e all’introspezione. E, d’altra parte, quella era anche la Vienna di Sigmund Freud: come ha ricostruito benissimo il neuroscienziato (e premio Nobel) Eric Kandel, la psicoanalisi arrivò a permeare tutte le arti, in un incrocio di saperi unico nella storia del Novecento.
Nell’anno in cui uscì Bambi, Freud aveva pubblicato una importante riflessione sulla morale, cioè L’Io e l’Es (oltre ad avere scoperto di avere un cancro alla mandibola). E il 1923 è anche l’anno del Putsch di Monaco, il fallito colpo di Stato di Hitler. Salten avverte il crescente antisemitismo del suo tempo ma frequenta i circoli culturali più raffinati. Per esempio conosce la Nuova Oggettività tedesca, che ha preso le mosse proprio a partire dagli anni Venti: artisti di diversa estrazione sociale che cercavano di rappresentare una realtà senz’abbellimenti, con tutta l’amara concretezza che il primo dopoguerra tedesco portava con sé.
Un esempio: è proprio nel 1923 che George Grosz pubblica Ecce Homo, celebre raccolta di disegni satirici che gli costarono una denuncia per oltraggio al pubblico pudore: raffigurò uomini e donne del suo tempo intenti in orge e baccanali, mentre intorno tutto stava per crollare, tra crisi economica e malcontento. È in questo clima che, dopo una pubblicazione a puntate su un giornale, esce il libro Bambi. Una vita nei boschi. L’educazione sentimentale del capriolo (diventerà un cerbiatto, ma solo più tardi) più famoso del mondo. La perdita della mamma, l’incontro con la dura realtà della foresta (per inciso: Salten era un fiero cacciatore), la lezione di vita appresa dai vecchi del bosco, l’amore, l’amicizia. La disillusione e l’introspezione, insomma.
Ma soprattutto, nella fiaba c’è un pervasivo senso di precarietà che muove anche dall’ineluttabilità delle leggi della natura. D’altra parte, molti classici per l’infanzia sono stati scritti dopo il 1859, anno di pubblicazione dell’Origine delle specie di Charles Darwin (dall’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, uscito nel 1882, alle Avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, del 1883). C’è una raffinata prospettiva letteraria che rovescia il punto di vista dominante, quello degli umani, e guarda il mondo con gli occhi degli animali. Per esempio Salten scrive che Bambi imparò prestissimo a riconoscere i rumori dei fagiani dietro ai cespugli e a indovinare l’arrivo dei topi dal suono dei passi. Non c’è antropomorfizzazione: semplicemente, lo scrittore riesce a raccontare quello che umano non è, conservandone integra la sua vividezza. Gli accenni alla morale non hanno nulla di banalmente edificante, sembrano invece tratti dagli scritti di Freud («L’Es è assolutamente amorale, l’Io si sforza di essere morale, il Super-io può diventare ipermorale, e quindi crudele»). C’è un percorso di crescita, con la madre che è ben presente fino a metà libro, cioè fino alla sua morte. Una madre che guida il cucciolo trasmettendogli gli strumenti per resistere nella foresta. Sin dalle prime pagine lei lo mette in guardia da un «pericolo» che, poco per volta, sarà più chiaro agli occhi del cucciolo, fino a quando, crescendo, imparerà a stare da solo.
Un pericolo nato dalla violenza degli umani da cui difendersi. Questa contrapposizione tra libertà individuale e intrusione violenta degli uomini-cacciatori venne letta come una metafora della politica nazista e così nel 1935 Bambi venne messo al bando, Felix Salten riparò in Svizzera e qui morì nel 1945.
Ma tre anni prima, nel 1942, era uscito il film della Disney ispirato al romanzo, il quinto classico della casa di produzione (nata proprio nel 1923). Un film che diventerà un enorme successo, anche se uscito in pieno secondo conflitto mondiale. Il film cambia radicalmente il racconto del libro: intanto il capriolo diventa un cerbiatto con la coda bianca, poi quella che era una favola naturalistica alla Henry David Thoreau diventa una storia fortemente umanizzata, strappalacrime.
È utile allora leggere quello che scrisse Frank Thomas, uno degli animatori principali: «Era il film che Walt aveva sempre sognato, perché capace di fare commuovere bambini e genitori». Occhi enormi e sgranati, un fare imbranato e indifeso, una dolcezza che ha segnato profondamente il nostro immaginario. Uno dei più riusciti esempi di antropomorfizzazione. Tant’è vero che le numerose testimonianze parlano di cerbiatti veri portati sul set affinché gli animatori potessero studiarne e imitarne abitudini e gesti.
Il film di David Hand del 1942 ha avuto un successo longevo: riduzioni a fumetti, una rimasterizzazione nel 2005, gadget e persino un videogioco. Il regista Rhys Frake-Waterfield ha già annunciato una versione «horror» del film, in arrivo per Itn Studios. Se nel suo libro Cinema Speculation Quentin Tarantino ammette di essere stato uno dei bambini «traumatizzati» da Bambi, l’attrice Olivia Colman ha proposto di fondare un club di tutti i bambini a cui il film ha tolto l’innocenza con la scena della morte della madre.
Ma la fiaba di Salten è un’altra cosa. Allora vale la pena sfogliare l’edizione che Contrasto ha mandato in libreria tre mesi fa, con la storica traduzione di Prampolini e la curatela di Giorgia Grilli. Docente di Letteratura per l’infanzia all’università di Bologna, Grilli osserva: «Bambi cresce stagione dopo stagione, imparando a conoscere e sopravvivere alle estati e agli inverni, accumulando conoscenze ed esperienze, fino a quando oserà avventurarsi più lontano di sempre». Cioè nel territorio nel quale scoprirà che anche «lui», l’uomo, il pericolo che gli hanno insegnato a evitare sin da piccolissimo, è un essere mortale, con le sue fragilità. «Apprenderlo – continua Grilli – è sconvolgente per Bambi e non di meno per il lettore, che non si pensa così, che non vive come se così fosse, che ha coltivato un’immagine di sé distorta, innaturale, monumentale, soprattutto all’interno della cultura occidentale». E così la capriola intellettuale di Salten si conclude con un’illuminazione originale, persino rivoluzionaria per i suoi tempi: è lo sguardo dell’animale a definire noi uomini e donne e non siamo noi a guardarli dall’alto, con disprezzo o compassione.
Forse è questo il cuore vero della fiaba, un libro che non finisce di stupire per tutte le storie che racchiude, compresa quella del suo primo traduttore nella lingua inglese, nel 1928: si chiamava Whittaker Chambers e diventerà una spia fervente anticomunista. Dall’autore ai traduttori, insomma, Bambi ha segnato le vite di tutti. Comprese intere generazioni di bambini che ancora oggi, adulti, ricordano con un brivido la frase: «Bambi non vide mai più la sua mamma».