La Lettura, 11 febbraio 2023
I 70 anni che avrebbe avuto Massimo Troisi
Massimo Troisi, oggi, avrebbe settant’anni, e ne sono già quasi trenta che è andato via. Ma è realmente andato via?
Massimo Troisi voleva fare il calciatore. Del resto era figlio d’arte: suo padre era stato per lungo tempo una sorta di «Maradona» della Sangiorgese, dove era approdato da Napoli come «straniero» ante litteram nel calcio ingenuo e onesto degli anni Cinquanta. Il suo palcoscenico erano i piccoli ma affollatissimi stadi di provincia, dove si portavano mazzi di fiori ai calciatori che il papà di Massimo donava a sua volta a una ragazza sugli spalti. Sempre la stessa, quella per cui, qualche tempo dopo, avrebbe appeso gli scarpini al chiodo, indossato la divisa delle Ferrovie dello Stato e con cui avrebbe avuto sei figli.
Massimo aveva il talento per diventare anche lui un «bomber», magari con la maglia azzurra del Napoli che in quegli anni provava con grande fatica a contrastare lo strapotere delle più blasonate squadre del Nord.
Nonostante la forza mentale e le capacità fisiche, il suo giovane cuore malandato gli impedì di realizzare quel sogno. Eppure, grazie al suo carattere di campione della vita e non solo dello sport, Massimo scelse un altro ambito per esprimere sé stesso: il palco di un teatrino di periferia dove la sua prima interpretazione eclissò quella di tutti gli altri: «Arò è asciut’ chist’?» – da dove è arrivato questo? – chiese il padre di Troisi al resto della famiglia mentre Massimo era sul palco. Una domanda dalla non facile risposta, perché comune a tutti i geni, non solo napoletani, era destinata a riecheggiare ancora senza risposta nelle pause delle battute della pièce portata in scena da Massimo per un debutto che ne segnò definitivamente la vita.
E non bisogna commettere l’errore di pensare che tutto questo avvenne in un contesto depresso e difficile: si è portati a credere, infatti, che la periferia di Napoli, soprattutto negli anni Settanta, fosse invasa e dominata dalla violenza della criminalità organizzata. Non è così. La criminalità organizzata c’era e c’è, purtroppo, ma non invadeva necessariamente tutti i campi. Se un ragazzo voleva fare cultura, se un ragazzo voleva sviluppare il proprio talento altrove e in altre direzioni, lo poteva fare; e lo può fare adesso. È vero, dopo il terremoto dell’80 cambia un po’ tutto. L’errata destinazione di gran parte dei fondi per la ricostruzione incide anche sulla criminalità, che passa dall’antico e un po’ romantico contrabbando di sigarette all’affare più moderno, terribile e letale del traffico di droga. Ma è anche un periodo di grande effervescenza culturale. Sia prima del terremoto che subito dopo, si crearono molti laboratori di nuova arte nella città e nella cinta esterna. Si va a teatro nei sottoscala, si dipinge, si scolpisce. Molte forme espressive della nuova Napoli nascono allora.
Se in una periferia germoglia l’esperimento della Nuova Compagnia di Canto Popolare, altrove nasce un gruppo di tre ragazzi chiamati i Saraceni che pian piano, spettacolo dopo spettacolo, conquistano giovanissimi il loro pezzo di personalissima rivoluzione culturale attraverso la derisione degli stereotipi sociali, politici e perfino religiosi.
Per capire come andò, non dobbiamo pensare agli attuali canali. Non c’era YouTube, non c’erano i social media. Questi ragazzi hanno calcato i palcoscenici più piccoli, sono stati nelle piazze, hanno fatto le feste di paese e lavorato presso i villaggi turistici. Ma se sei bravo, se sei bravissimo, se sei geniale, in qualche modo, prima o poi, al grande palcoscenico ci arrivi. E loro arrivarono alla più grande ribalta di tutte che era la televisione: nasceva La Smorfia.
Erano tre, ma – in realtà – erano molto più di tre: erano tutte le ragazze e i ragazzi che avevano incontrato a San Giorgio quando ci si vedeva per discutere e provare a cambiare il mondo.
E anche se oggi non è facile capire, alla luce dell’offerta frammentata e diversificata che abbiamo, che cosa significava arrivare su Raiuno, all’epoca voleva dire accedere con immediatezza a una platea praticamente sconfinata.
Per noi, ragazzi di questa città, fu uno straordinario motivo d’orgoglio vedere tre come noi, che parlavano il nostro linguaggio, che si muovevano nella nostra stessa maniera, che interagivano fra loro come noi interagivamo con i nostri amici, diventare così popolari. Fu bellissimo per noi e fu meraviglioso per loro diventare all’improvviso La Smorfia. Uno splendido ciclo, che tuttavia finì. Eppure, cambiare squadra sembrava impossibile. La squadra di Massimo Troisi era La Smorfia. Ma avrebbe continuato il suo percorso da solo. Era riconoscibile, era riconosciuto, era amato. Ma la strada doveva essere diversa. E lui decise di fare qualcos’altro. Il cinema.
Il suo esordio, Ricomincio da tre, fu un grandissimo trionfo. Il successo fu straordinario, naturalmente subito replicato su scala nazionale. Da lì è nata una stella del cinema, confermata dal secondo film: Scusate il ritardo, una storia di ambientazione napoletana. Anche questa una storia d’amore, che stavolta però diventa centrale, non è più un contenitore all’interno del quale Massimo mette tutte le sue riflessioni sulla vita e sull’amicizia, come è stato in Ricomincio da tre. In Scusate il ritardo, la storia d’amore diventa la narrazione centrale.
Una scena iconica di Scusate il ritardo, un feticcio per il pubblico napoletano, è quella in cui il personaggio femminile deve comunicare a Massimo che la loro storia è finita. Massimo segue la partita, Napoli-Cesena, con il Napoli in svantaggio nel primo tempo, per cui ha un momento di dolore e di malinconia che è lo stesso dolore e malinconia che prova lei, ma per motivi ben diversi. E poi quando alla fine lei scoppia a piangere, disperata, lui crede sinceramente che sia per il fatto che il Napoli stia perdendo e dice: «Non ti preoccupare. Nel secondo tempo il Napoli recupera». Questo è meraviglioso perché solo un tifoso del Napoli può capire quanto sia realistico questo pensiero.
E tuttavia Massimo Troisi era indiscutibilmente il personaggio Massimo Troisi. Lui era sé stesso. Quindi i suoi pezzi di comicità estemporanea diventano le interviste. Diventano i momenti in cui accede da solo ai programmi televisivi, lasciandoci pezzi indimenticabili sotto forma di interviste con grandi intervistatori. Troisi, infatti, non riesce a fare a meno di essere sé stesso e questo consolida l’idea di quanto sia naturale il suo modo di parlare e quanto sia naturale la sua comicità. Nell’ambito di queste interviste la cosa che lui fa è la destrutturazione completa dei luoghi comuni. Lui esprime in maniera al solito ironica, graffiante e assolutamente diretta, quanto siano assurdi e anche ridicoli i luoghi comuni su Napoli e sulla cultura napoletana.
Le interviste sono anche l’occasione per esprimere delle idee politiche. Questo lo fa in maniera al solito ironica e di grande intelligenza, ma lo fa e lo fa in maniera esplicita. Il Massimo Troisi politico rimane sorridente, mai offensivo, mai violento, ma sempre coerente con le idee che esprime, finendo per cambiare la visione del mondo di chi lo ascolta.
Capitolo a parte, nell’ambito delle collaborazioni e degli incontri di quegli anni, è Non ci resta che piangere, che sancisce l’incontro fra due dei più potenti comici del nostro tempo. A fianco di Roberto Benigni e Massimo Troisi c’è un grandissimo autore che è Giuseppe Bertolucci, che li accompagna nella scrittura e nella direzione di questo meraviglioso film, in cui succede una cosa particolare, apparentemente strana, ma che in realtà ha un senso ben preciso. Massimo Troisi, che ormai è un autore di consolidato successo, capisce che la sua formazione può essere migliorata. E può essere migliorata nella parte che non c’è mai stata, cioè il fare l’attore in film di altri autori. Lo fa con la collaborazione di Cinzia Th Torrini in Hotel Colonial in un primo momento.
Questo passaggio dell’essere attore in film di altri autori trova la sua massima possibilità di miglioramento nell’incontro con Ettore Scola. È un incontro importantissimo anche dal punto di vista emotivo e affettivo. Ci sarà quasi una filiazione da parte di Scola nei confronti del più giovane e sensibilissimo Massimo, che diventa un suo compagno di strada. All’interno della collaborazione con Ettore Scola ci sarà anche l’incontro con Marcello Mastroianni. E due film li vedranno lavorare insieme. Anche con Marcello Mastroianni, smisurata icona del cinema italiano, Massimo Troisi stabilirà un rapporto affettivo.
Il suo successo è basato su una precisa sintonia col pubblico, quella comica. Lui fa ridere e la gente va a vederlo per ridere. Associare il proprio nome a due film d’autore come Che ora è e Splendor, cioè film non facili, non d’immediata comprensibilità e soprattutto nei quali lui non è un comico, è un enorme rischio che decide di correre lucidamente per migliorare sé stesso. In quest’ottica si innesta Il viaggio di Capitan Fracassa in cui Troisi interpreta il ruolo di un Pulcinella smascherato e triste, che tende a quello che lui ha tentato di fare sempre, cioè la definitiva frattura degli stereotipi della tradizione culturale napoletana, portata nel nuovo tempo con la rottura della maschera.
A questo punto, a completare il percorso arriva Il postino, un’opera importantissima nella storia professionale e umana di Massimo Troisi. Lui portava i segni della malattia sul volto, ma questo incrementò il valore del suo viso e della sua espressione. Massimo Troisi diventò col Postino un meraviglioso attore drammatico, mantenendo tutta la potenza della sua vis comica e della sua capacità di far sorridere. E questo è il punto in cui Troisi fa una riflessione sulle sue due grandi anime, quella popolare e quella colta, che si incontrano perché sono la stessa cosa, che diventano una funzionale all’altra. È il momento in cui la cultura diventa vera, diventa reale. E si capisce nel Postino, perché a ben cercare era sempre stato vero: la cultura è viva e serve alla vita. Quando Il postino utilizza la poesia del poeta per migliorare la propria esistenza, per dire alla persona che ama che appunto l’ama e che vuole stare con lei, la poesia diventa viva e lo capisce anche il poeta.
Fino a interrompersi di schianto, perché la vita di Massimo Troisi finisce improvvisamente, dopo avere terminato a Cinecittà le lavorazioni necessarie per concludere il montaggio del film.
Ed eccoci qua, a riproporci la domanda che ci siamo fatti all’inizio, e cioè se in realtà Massimo Troisi se ne sia mai andato. Da questa città, certamente no. È ancora nella profondità della produzione culturale. Ma non se ne è andato nemmeno dalla cultura nazionale, nella quale e dalla quale viene richiamato spesso, come tutti quelli che hanno cambiato la strada, che hanno indicato nuovi territori. Massimo Troisi non se n’è andato. Massimo Troisi fa ancora parte di tutto quello che abbiamo noi dentro e che riferiamo all’arte meravigliosa del cinema e della comicità. Un modello, la filosofia di un rivoluzionario gentile che ha capito il suo momento storico meglio di tutti gli altri suoi colleghi di quel tempo.
Massimo Troisi, si dice, avrebbe preferito vincere la Coppa dei Campioni ancora non diventata Champions League, piuttosto che un Oscar. Il suo cuore non gli ha concesso questa facoltà di scelta e soprattutto ha reso il suo tempo eterno, sublimando il suo lavoro e la sua arte.
Noi, invece, abbiamo la possibilità di scegliere, a quasi trent’anni dalla sua scomparsa, l’arte di Massimo Troisi come un riferimento importante della nostra modernità. Ricominciare da Troisi è possibile e forse consigliabile: per quello che lui aveva capito, per quello che lui ci ha detto e raccontato. Per come ci ha fatto ridere e per come ci ha commosso.
Di lui ci manca tutto: quello che è stato e quello che sarebbe potuto essere e avrebbe potuto fare. Un artista capace di sorprenderci sempre, che ci ha insegnato un nuovo modo di guardare alla realtà e a noi stessi e che, forse, oggi ci osserva ancora divertito da lassù con una Coppa dei Campioni in una mano e un Oscar nell’altra.
Da qui all’eternità.