La Lettura, 11 febbraio 2023
I Luci (Dalla e Battisti)
Il medesimo nome di battesimo. Lucio. Un solo giorno di distanza all’anagrafe: 4 marzo 1943-5 marzo 1943. Poco altro parrebbero avere in comune Dalla e Battisti, se si esclude la capacità di penetrare a fondo nella vita quotidiana di milioni di ascoltatori. A ognuno di noi – volente o nolente – una loro canzone ha attraversato la vita, cambiandola in qualche modo, amplificandola, evidenziando una voglia o un guaio.
Ho conosciuto Dalla nel medesimo istante in cui lo hanno conosciuto gli italiani. Era il 25 febbraio 1971, il luogo era il Festival di Sanremo; dal palco dell’Ariston alle case del Paese scorrevano le canzoni che hanno definito quell’epoca, presentate ancora in bianco e nero per un buon numero di anni. C’erano tutti: Nada e Nicola di Bari – tra un paio di giorni vincitori di quell’edizione con Il cuore è uno zingaro – Al Bano, Caterina Caselli, Antoine, Adriano Celentano. Assieme a loro tutti i grandi del periodo, e quando entra in scena Dalla pochi sarebbero stati disponibili a scommettere su di lui. C’era stata una sua dimenticata apparizione al precedente Sanremo 1966 con una canzone dal titolo bizzarro – Pafff... Bum! – cantata con una grinta da urlatore che non lo aveva salvato dallo scivolare nella lista indifferenziata dei non ammessi alla finale; nonostante l’abbinamento, secondo il costume dell’epoca, con il leggendario gruppo inglese degli Yardbirds.
Il Dalla che si presenta ora sul palco sembra più composto, in un elegante maglione bianco, un basco, barba non proprio coltivata, le mani dietro la schiena. Al suo fianco il violinista Renzo Fontanella e il quartetto vocale dei Cantori moderni condotti da Alessandro Alessandroni, il più celebre fischiatore della musica italiana. Comincia Fontanella, alle prese con un riff insuperabile, e quando la telecamera inquadra Dalla che inizia a sciorinare il suo racconto cantato, l’Italia si innamora di quel personaggio così fuori posto e di quella canzone in qualche modo poco raccomandabile.
«Dice che era un bell’uomo e veniva/ veniva dal mare» l’incipit che tutti imparano, la storia di quella ragazza che si lascia conquistare da un marinaio senza nome da cui aspetterà un figlio. Uno scandaloso padre ignoto mai più ritrovato, poiché verrà presto ammazzato; peggio ancora – secondo scandalo – nessun senso di colpa da parte della giovanissima madre, anzi un’accettazione gioiosa di quella gravidanza da cui nascerà un figlio che porta inciso un terzo scandalo nel nome con cui la gente del porto lo conosce: Gesù Bambino.
Nell’Italia di allora era una combinazione deflagrante, tanto che i dirigenti del festival imporranno alla canzone – pena la non ammissione – il titolo con cui ancora oggi la conosciamo: 4 marzo 1943. Data di nascita di Dalla, metaforico Gesù Bambino barbuto e trasandato, che confesserà nelle mille apparizioni che accompagnano il Festival il suo essere ingovernabile. Mi sembra ancora di ricordare un testuale «Sto a tavola come una bestia» pronunciato nel corso di una intervista; sciocchezze, se si vuole, per un’Italia squassata dalle rivolte, ma capaci di turbare nel profondo un Paese che preferiva ritenersi educato e perbene.
Parte di quel turbamento arriva anche a noi, ragazzini in cerca di qualcosa che non si sapeva dire, qualcosa che sarebbe arrivato a breve e d’oltreoceano o d’oltre Manica e ci avrebbe sconvolti portandoci lontano da quella canzone italiana che poi il tempo futuro ci avrebbe insegnato a non sottovalutare; anzi, a recuperare come memoria collettiva.
Niente più Dalla per noi per un numero considerevole di anni, fino a che un’iniziativa di solidarietà lo porta a presentare il suo nuovo album Automobili all’interno di una fabbrica reggiana, il calzificio Bloch, protagonista di una delle più lunghe occupazioni che la storia operaia ricordi, dal maggio 1976 all’aprile 1978. È in mezzo a quella folla di operaie coraggiose, di studenti e di militanti, che ci sembra di ritrovarlo vicino come qualcosa di nostro, capace di svincolarsi dal mondo dorato delle televisioni.
A tutto il resto della sua carriera occorre arrendersi: la popolarità – anche la grandezza – di Piazza grande, Come è profondo il mare, Disperato erotico stomp, L’anno che verrà, Attenti al lupo – poco sopportabile, ma tutti la cantano – proiettano Dalla su scenari multiformi e sempre alti; fino a Caruso, davanti alla quale ci si può solo inchinare per la maestria espressa nell’incorniciare il Mediterraneo. Se tutto questo non bastasse, la bolognesità incisa sul suo volto ce lo farebbe amare in ogni caso, per quella sua aria da capoluogo emiliano capace di attrarre tutta una regione a sé, da Ron a Roberto Roversi, a Gianni Morandi, al fotografo Luigi Ghirri, a Samuele Bersani, ad Angela Baraldi, a Mauro Malavasi, agli Stadio e chissà a quanti altri che sto colpevolmente trascurando.
Quasi agli antipodi l’altro grande Lucio: Battisti. Nessuna identificazione geografica per lui, quasi apolide nella sua a-regionalità in un mondo musicale ancorato a stretti legami provinciali, dalla Genova dei cantautori alla Napoli delle tammuriate e della tradizione, al Meridione di Domenico Modugno, alla Milano di Giorgio Gaber e Nanni Svampa. L’Italia bigotta e soffocante che ossessiona schiere di cantautori da Gino Paoli a Luigi Tenco fino a Fabrizio De André non fa da sottotesto alle sue canzoni. Nessuna pantera di Goro, nessun usignolo di Cavriago, nessuna aquila di Ligonchio: Battisti sembra stare a sé, simile solo a sé, umbratile e sofferto anche quando sorride.
Non è di stoffa adatta alla pressione di Sanremo – un’unica partecipazione per lui nel 1966 con Un’avventura – piuttosto è artista da Canzonissima, da sabato sera in famiglia, da contatto intimo, qualcosa che scivola nei cassetti segreti di più di una generazione. Lo ritroviamo puntualmente ogni settimana nella classifica radiofonica della Hit Parade di Lelio Luttazzi, programma che da ragazzini seguivamo con quella fede quasi religiosa che eravamo disposti ad attribuire soltanto al 90° Minuto dedicato al calcio.
È su quelle frequenze che Battisti svetta, in particolare con Pensieri e parole, in classifica per 25 settimane. «Che ne sai di un ragazzo per bene/ che mostrava tutte quante le sue pene»; ecco qua Battisti, raccolto in un’unica frase di canzonetta. Quelle pene mostrate sono le stesse di una moltitudine di adolescenti non ancora toccati dagli accadimenti d’intorno, colonne sonore di uno sgomento prepolitico che ognuno poteva adattare a sé. Un’introversione che in lui mai si estinguerà e che farà da propulsore a una reazione di segno opposto, incarnata in canzoni che – fuori dalle tempeste di quegli anni di tumulto – restano ancora oggi memorabili per la penetrazione melodica, gli arrangiamenti, il gusto musicale, l’unicità canora.
E poi l’incastro con i testi di Giulio Rapetti, cioè Mogol, capace di infilare parole in schemi metrici tutt’altro che semplici con una facilità disarmante. Sembra pescarle ovunque e con disinvoltura assoluta, una collezione di istantanee rilasciate in pura funzione di rima, senza preoccuparsi di un senso definito; e alla fine paradossalmente il loro suono diventa il loro senso. «Tu lo chiami solo un vecchio sporco imbroglio/ ma è un abbaglio/ è petrolio»: frasi sibilline che tutti cantano, poiché si cantano da sé. E in questo si condannano.
Già, perché c’è tutto un mondo che trova non tollerabile l’ascolto di quelle canzoni che minacciano di insinuare uno slittamento sentimentale nella rigidità delle convinzioni militanti di allora: Battisti e Mogol vengono giudicati obiettivamente reazionari da tanti tribunali del popolo. L’istanza femminista ridicolizzata da Dieci ragazze per me, il fastidio cantato per quella emancipazione – che in loro prende nomi di comodo, Linda, Francesca – e che pretende eguaglianza, parità; quelle loro bambine dalle gote arrossate che vogliono farsi donna, quel passaggio dall’innocenza pre-sessuata al mare nero dell’esperienza: tutte immagini che non si possano accettare, vestali di un’Italia arcaica da dimenticare. Oppure accade il contrario esatto, la Lucia di Luci-ah che pretende di provare tutti gli uomini del paese prima di scegliere quello adatto a lei, caricatura scanzonata dell’ansia di soggettività in circolo in quegli anni.
Neppure l’immagine grafica lascia indifferenti. Prendiamo la copertina di Il mio canto libero, il suo album del 1972. Potrebbe essere un titolo da impegno civile; invece no, la fotografia propone tante braccia nude che si sollevano a mano spalancate verso il cielo, quasi un oltraggio per tutti quelli che – e siamo in tanti – inneggiano alla libertà vera con la mano destra racchiusa a pugno. Più le radio impazziscono per quelle canzoni, più le scansiamo, eppure ci troviamo nostro malgrado a fischiettarle soprappensiero, in un rilassamento involontario alle ragioni del nemico. Chiamiamolo mistero, e accettiamolo come tale.
Oggi infine, che liberamente ascoltiamo Battisti senza pastoie ideologiche, ci sembra di dover ammettere che qualcosa in quegli anni poco sorridenti ci siamo persi.