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 2023  febbraio 11 Sabato calendario

Intervista a Pablo Echaurren


Mi appare come l’ultimo testimone di una stagione ormai remota, gli anni Settanta. Una mostra al Mambo di Bologna lo racconta attraverso le sue opere. Nessuna nostalgia colgo nelle parole di Pablo Echaurren, che vado a trovare nella sua casa romana prospiciente al Tevere, che proprio dalla terrazza da cui ci affacciamo fa una curva quasi a gomito: «Sembra quasi nascondersi», dice Pablo, «un po’ come ho cercato di fare io, decisamente al riparo dai circuiti del mercato dell’arte. In fondo questa mostra dedicata al mio rapporto con gli indiani metropolitani racconta di un modo diverso di pensare l’arte e l’artista». Il turbo della fine degli anni Sessanta non aveva prodotto solo pantaloni a vita bassa, camicie aderenti e zazzere al vento, ma un rimescolamento di linguaggi e una distruzione di gerarchie: cantautori, fumettari, situazionisti, indiani metropolitani. Qualcosa insomma di esteticamente azzardato, provocatorio, politicamente scorretto e vitale.
Echaurren, 72 anni, romano, è figlio di Roberto Sebastián Antonio Matta, il grande artista cileno: «non amo, non ho mai amato mio padre», dice, e la frase ha il peso di una pietra. Strano Pablo che ammazza la storia e si tuffa nella preistoria. Un film lo racconta nel suo rapporto col mondo di Neanderthal, con quel remotissimo passato che egli colleziona e racconta attraverso la sua arte.
Che relazione c’è tra gli indiani metropolitani e l’uomo di Neanderthal?
«Sono entrambi dei perdenti».
E tu come ti consideri?
«In un certo senso sono un perdente anch’io».
Un perdente di successo.
«Il successo non l’ho mai cercato. E se ha cercato menon mi ha trovato. Ho sempre inseguito l’idea di un’arte collettiva, un pensiero collettivo, un fare comune. Un punto di vista che non ha mai pagato e che mi ha posto ai margini del sistema».
Con tua soddisfazione?
«Assoluta, non ho mai chiesto di più che uccidere l’arte per farla rivivere nella vita quotidiana».
Vasto programma.
«Gli anni Settanta, almeno in parte, sono stati questo».
Che cosa facevi esattamente?
«Ho fatto mille cose e tutte in una chiave collettiva. Per un po’ mi ero trasferito a Bologna. Lavoravo per il giornale
Lotta Continua, facevo fanzine e fumetti. Agli inizi dei ’70 iniziai a leggere Marx. Poi passai alla cultura giapponese».
Un bel salto.
«Marx era l’ideologia. Il Giappone, il segno».
Mi fai pensare a Roland Barthes.
«Ne fu affascinato. Nel segno giapponese c’è qualcosa di meravigliosamente maniacale, pensa a Hokusai».
Ricordo una serie di tuoi quadri.
«Presi spunto daLa grande onda. Tavole costruite come fossero dei piccoli quadrati. Nel 1974 ne spedii una a Italo Calvino che conoscevo bene».
E lui che rispose?
«Mi mandò una lettera in cui parlava dell’inafferrabilità della schiuma delle onde. Mi scrisse che da giovani nessun legame può considerarsi stabile e ogni avvenimento segna sempre un inizio e mai una fine».
Incoraggiante.
«Voleva che lo tenessi al corrente di quello che avrei fatto. La cosa buffa è che quando uscì Palomar, nel primo capitolo il signor Palomar è in piedi sulla riva del mare a guardare un’onda».
So che ti chiamavano “Paino”.
«È vero, nelle lettere sia Calvino che Baruchello usavano spesso iniziare con “Caro Paino”».
Paino è il bellimbusto, il gagà, quello che ostenta la propria eleganza.
«Era una balia che mi chiamava “Paino”. La mia eleganza non ha mai superato i trenta euro per l’acquisto di una camicia».
Prima di entrare in quegli anni: come ti è venuto in mente un film sul Neanderthal?
«È il più sfigato della preistoria. Considerato un subumano. Criminalizzato, insultato, rimosso. Cancellato dal più aggressivo della specie: l’homo sapiens».
Nessuno sa veramente come si sia estinto.
«Una certa rivalutazione è in corso. Ho lavorato al Neanderthal negli anni della pandemia: una mostra e un film voluto e girato da Antonello Matarazzo.
A parte il fatto che è un perdente, cosa ti attrae di Neanderthal?
«Fin da piccolo mi sono sentito un naturalista e un entomologo. Catalogavo e archiviavo fossili. La paleontologia mi è sembrata uno sviluppo interessante.
Dicono che Neanderthal non avesse un pensiero simbolico e fosse dotato di ridotte capacità intellettive. In realtà si è scoperta una sua qualche attività simbolica.
Pare che assistesse i malati, onorasse i defunti e realizzasse utensili ornamentali che erano un po’ l’anticamera della produzione artistica».
Un’arte inconsapevole?
«Anonima, certo, e del tutto involontaria. Oltretutto, era un raccoglitore di oggetti con cui arredava il suo spazio.
Monili riconducibili a piccole selci o pietre levigate, conchiglie, zanne o artigli di rapaci. Quasi deiready madeprima che Duchamp li imponesse, nel tentativo di destabilizzare il mercato dell’arte».
Duchamp è una presenza importante nel tuo percorso.
«Le sue pratiche le considero imprescindibili per il mio lavoro».
Non ti sembra un nome po’ abusato?
«Il vero abuso risiede nella parola “arte”, sfruttata e spesa ovunque in modo intensivo e dissipativo. È l’arte che ha un bisogno disperato di essere approvata, accettata e venduta. È un arte “trashendente”, spazzatura eccellente».
Da bambino volevi fare l’entomologo e poi cosa è accaduto?
«Scolaro indolente e tuttavia attratto da archivi e collezioni. Fin da bambino pensavo che la storia del mondo fosse fatta da collezionisti. Gente anonima ma capace di mettere assieme i brandelli del mondo».
Sei figlio di un padre famoso, di un grande artista.
«Figlio del caso. I veri padri non si trovano, si cercano».
Il vero padre era Sebastian Matta. Perché tanto rancore?
«Nessun rancore. Semplicemente non ho mai avuto alcun rapporto. Se ne andò di casa che avevo tre anni. Non l’ho detestato. Era un estraneo».
Hai cercato un padre altrove.
«L’ho trovato in Gianfranco Baruchello: lo incontrai che avevo 17 anni e mi ha affascinato con il suo parlare, con le sue opere, con la sua scrittura. Fu come se si aprisse un mondo sconosciuto. Bastava una motivazione. Cominciai così a realizzare delle piccole cose».
E poi?
«Baruchello le portò da Arturo Schwarz e tornò con un assegno per me. Era la prima volta che guadagnavo».
Quando dici che tuo padre era come un estraneo intendi dire che non provava sentimenti di affetto?
«Non lo so se li provasse. Ma non me ne sono mai accorto.
Forse volevo cercare un rapporto ma non è scattato, non è venuto. Ci vedevamo un paio di volte l’anno: a Natale e forse a Pasqua. Era immensamente egoriferito. Un padremuscolare che mi ha sempre annoiato».
Si sono conosciuti tuo padre e Baruchello?
«Sì, anche se Matta era più famoso di Baruchello. Inoltre Gianfranco non era amato nel suo ambiente. Lo consideravano un privilegiato, uno vissuto negli agi».
Non pensi che il pregiudizio ti abbia impedito di cogliere la grandezza artistica di tuo padre?
«Ancora oggi se guardo un’opera di Baruchello mi viene la pelle d’oca perché sotto c’è tutto o quasi di ciò che mi ha trasmesso, mentre davanti a una tela di mio padre resto indifferente. L’idea che avesse uno stile inconfondibile non vuol dire niente».
Oddio, qualcosa vuole dire.
«Che ha uno stile, che il mercato lo riconosce, e la gente se lo mette alle pareti? Vabbè, e poi? L’arte è passata dalla sedizione alla seduzione. Al glamour. L’unico valore che le si riconosce è il prezzo che strappa sul mercato».
Stai ai margini del sistema o decisamente fuori?
«C’è differenza? Non chiedo nulla e mi guardo bene dal relazionarmi con esso».
Sei un antagonista.
«Lo sono sempre stato, almeno credo. Preferirei la parola “outsider”».
In fondo anche Matta riteneva di essere un
antagonista del sistema.
«Sinceramente non me ne sono mai accorto. E comunque la parola “artista” è logora e non vuol dire più niente.
Pensava di essere un rivoluzionario, in realtà sbavava solo per approdare a qualche Biennale».
Mi sembra un’aspirazione legittima.
«Ogni Biennale non è altro che la messa a punto di una nuova campagna promozionale. Il clima che vi si respira è vagamente ultraterreno. Si aspetta solo la beatificazione dei nuovi santi. L’artista è ormai diventato un devoto del Corpus Christie’s e del Corpus Sotheby’s».
Battuti all’asta.
«Battuti in tutti i sensi».
Ma se i soldi girano ovunque perché non dovrebbero entrare anche nel mondo dell’arte?
«Ma infatti. La vera umiliazione non risiede nell’essere venduti ma nel non essere acquistati, non è nel prostituirsi ma nel non trovare nuovi clienti. Di questo si vergogna l’artista che resta al palo».
Con che cosa sostituiresti la parola “artista”?
«Con la parola “uomo”, in tutte le sue declinazioni.
Un’arte che si limitasse alle opere senza entrare nell’esistenza, senza diventare esistenza, non mi interessa. Mi sembrerebbe un fallimento».
Hai avuto i tuoi riferimenti in Baruchello e forse in Calvino. Altre presenze giovanili?
«Fui molto amico di Toti Scialoja, ho frequentato Franco Angeli, Kounellis. Ero considerato una specie di mascotte. C’era Schifano. Ma il grande secondo me era Gastone Novelli. Non l’ho conosciuto. Morì nel 1968, l’anno in cui cominciai a fare arte. Ma il più grande di tutti è stato Cy Twombly. Ricordo che ci scambiammo un’opera. Grande generosità la sua. E altissima sensibilità. Guardando i suoi lavori ho capito cosa volesse dire dipingere. Ho capito che non ho mai fatto pittura, riempito gli spazi con dei colori».
Hai un ricordo di lui?
«Ne ho tanti, ma fanno parte dell’aneddotica. Invece mi viene in mente l’unica volta che provai a discutere con mio padre. Fu poco prima che morisse. Il discorso finì proprio su Twombly. Lui, beffardo e sbrigativo urlò: è uno schifo di pittore. Io gli risposi: è stato il più grande. Si sollevò dalla poltrona, che aveva disegnato lui stesso, e mi venne incontro con l’aria minacciosa. Mancava solo che cominciassimo a picchiarci».
Che cos’è che ti tormenta di questo rapporto irrisolto e contrastato?
«Non lo so, a volte le cose prendono una direzione che non riusciamo più a correggere. E alla fine resta la nostravulnerabilità e suscettibilità. Personalmente credo di avere avuto una paura fottuta di essere considerato il figlio di… Non sono mai riuscito ad accettare questa specie di confusione. In certi momenti mi chiedo perché non esiste un undicesimo comandamento che dica: onora il figlio».
Forse un figlio deve guadagnarsi delle cose che un padre ha già acquisito.
«Un figlio deve avere le stesse opportunità di un padre.
Per questo ho amato e onorato Baruchello. Negli ultimi anni ci siamo sentiti poco e ti confesso che la cosa un po’ mi ha pesato. Ogni tanto ho scritto qualcosa su di lui.
Come su altri che ho conosciuto e che considero familiari».
Nel tuo albero genealogico hai cancellato tuo padre.
«È vero. Ma non sono mai stato affascinato dall’origine delle cose e delle persone, ma dalla loro appartenenza. È grazie all’appartenenza che i legami diventano veri. Con mio padre c’era origine ma non appartenenza. Con Baruchello esattamente il contrario».
Baruchello è morto alcune settimane fa, alla bella età di 98 anni.
«La morte di un altro non può toglierti quello che ti ha donato. Nel caso di Gianfranco c’è questo lascito di affetto, di linguaggi e di esperienze che niente e nessuno può cancellare. Era un uomo di un’epoca diversa dalla mia, generazioni differenti, eppure così generoso e aperto da saper mettere tutto alla stessa altezza. Mi verrebbe da dire: sedimenti e sentimenti. Le pietre fondanti dell’esistenza».