Robinson, 11 febbraio 2023
Albertone raccontato da Verdone
Con la sua maschera di attore, con i suoi personaggi, Alberto Sordi ha rappresentato un’Italia allegra, rassicurante, in fondo piena di ottimismo. Anche quando i personaggi che interpretava erano orridi, furbacchioni, superficiali. Faceva ridere, e la risata – anche quando è amara, o beffarda – genera positività. Quindi non mi stupisce che le lettere raccolte in questo libro siano piene di affetto, di un’identificazione calda e positiva. Devo ammettere che, nel mio piccolo, vale anche per me. Noi comici abbiamo un potere terapeutico. La gente ci ringrazia per i momenti di allegria che le abbiamo regalato. Alberto Sordi aveva un’immane attenzione per il suo pubblico. Il successo, e l’amore che ne derivava, erano la sua vita. Avendolo conosciuto nel privato, posso però affermare che l’uomo Sordi era diversissimo dalla maschera che vedevamo sullo schermo. Sordi viveva nell’ordine, nel silenzio, nella penombra. Pochissime persone erano ammesse nelle stanze della sua villa, le cui finestre erano perennemente schermate da persiane che difendevano Sordi dal sole e dagli sguardi del mondo. Era casalingo e solitario. Viveva come un monaco. Avendo potuto, per lunghi periodi, frequentare la sua villa – ero uno dei “pochissimi” di cui sopra – oso dire che mi sembrava la casa di un prelato. Era piena di figure sacre, santi, Madonne; e di foto di famiglia. Una cosa che mi ha sempre stupito è che non ci fosse una sola foto con personaggi dello spettacolo. Io conservo come fossero preziose mie foto con i Led Zeppelin o con Bruce Springsteen. Lui non esponeva foto né con Gassman, né con Manfredi, né con Tognazzi, con nessuno dei suoi grandi colleghi/rivali. Ricordo un’unica immagine con una donna che non fosse una parente: accanto alla scrivania c’era una sua foto assieme a Soraya, con una dedica molto affettuosa. Gli chiesi come mai, perché proprio Soraya. Mi disse che era la donna che aveva sempre sognato: elegante, aristocratica, di una bellezza malinconica e lievemente altera. Sulla scrivania di Sordi c’era sempre, da un lato, una pila enorme di copioni. Credo che negli anni d’oro ne ricevesse due o tre alla settimana. Gli chiesi se riuscisse a leggerli tutti. Li inizio, mi disse: poi, nel 99% dei casi a pagina 10 mi sono già accorto chenon funzionano, che non hanno alcun interesse. E allora li butto sul pavimento: il cameriere al piano di sotto sa che, quando sente il botto del copione, deve salire, prendere quelli che ho scartato e buttarli al macero. Sull’altro lato della scrivania c’era, sempre, un mucchio di corrispondenza. Centinaia di lettere. Ad alcune rispondeva, ad altre no. A quelle troppo sfrontate, o che lo invitavano a prendere un caffè “per conoscerci”, non rispondeva mai. A quelle educate, ossequiose, rispondeva. Era, anche in questo, un uomo generoso. Il suo rapporto con i fans era ambivalente. Da un lato non poteva vivere senza di loro, e quando gli ultimi film furono ignorati dal pubblico provò un grande dolore. Dall’altro, l’invadenza delle persone lo infastidiva. Usciva di casa pochissimo. E quando usciva, per lo più partiva, faceva lunghi viaggi, in Brasile, in America, perché amava viaggiare. Le sue uscite, diciamo così, “mondane” erano rare. E voleva sempre avere un accompagnatore. Per alcuni anni, spesso questo accompagnatore sono stato io: ho avuto questo onore, o questo onere. Andavamo spesso da Sylva Koscina, una volta siamo andati a casa di Gina Lollobrigida. Ma per lo più erano cene di rappresentanza, alla presenza di industriali, politici, persone che a volte non capivo nemmeno chi fossero. Inutile dire che, quando lo riconoscevano, lo circondavano e lo bombardavano di chiacchiere. E lì ho avuto modo di ammirare la sua formidabile tecnica nel gestire queste situazioni. Spesso erano industrialotti o commendatori del Nord che lo sommergevano di domande e di osservazioni sul suo lavoro, su quanto gli era piaciuto quel dato film, su quanto avevano riso per quella certa battuta. E mentre questi parlavano, parlavano, lui sorrideva e, a mezza voce, li insultava! Tanto loro non sentivano, non ascoltavano. E così, tra un “anvedi ’sto...” e un “li mortacci tua”, appena sussurrati fra i denti, riusciva a liberarsene. Sordi apparteneva agli altri, e queste lettere lo dimostrano. Ma in realtà erano la sua maschera, i suoi personaggi, ad appartenere agli altri. Lui, nel privato, fuggiva dalla gente. Il modo peggiore di avvicinarsi a lui era proporgli, in modo invadente, di “diventare amici”. Perché Sordi gli amici, pochi, se li sceglieva: e al di fuori della famiglia, e di una ristrettissima cerchia, non poteva diventare amico di nessuno.