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 2023  febbraio 11 Sabato calendario

Rileggere Mario Picchi


L’ambiente, in quasi tutta la sua produzione letteraria, è Roma Lui sale sul tram e guarda la gente. Maestro del racconto breve è stato giornalista del primo Espresso. E grande traduttore di Maupassant
Per la mia generazione Mario Picchi era una ( autorevole) firma dell’Espresso formato lenzuolo degli anni ’ 70. Livornese, viveva a Roma dal 1939. Nei primi anni ’ 50 era stato redattore dellaFiera letteraria. Negli anni ho incontrato il suo nome come splendido traduttore e prefatore del Meridiano dei racconti di Maupassant, e dei Miserabili di Hugo. Ho scoperto anche in seguito che ha pubblicato vari romanzi e racconti. Provo a offrirvene un veloce ritratto usando come viatico Parlando ai figli( 1974), diario pubblico relativo a quegli anni, zibaldone di pensieri, commenti ai classici e alla cronaca, citazioni, in forma di lettera al figlio più piccolo, 12enne ( lui invece “ospite della vita” da 53 anni).
Un esempio alto di prosa saggistico- autobiografica, appena impreziosita da alcuni toscanismi (“movere”, “spiomba”…). Innumerevoli gli autori con cui dialoga, da George Sand a London, da Swift a Campanile, ma il suo cuore batte per i grandi saggisti, nei quali si rispecchia, nei filosofi dell’esistenza e critici della società: Montaigne, Machiavelli, Castiglione, il Leopardi delloZibaldone… Aggiungo che Picchi rifulge nell’arte italianissima del racconto breve (Roma di giorno, Storia di una notte, Ritratto di famiglia), dove pure ha imparato molto dal suo maestro Maupassant, assai più che neiromanzi, pieni di immaginazione ma forse stilisticamente più datati (Il muro torto, Castel Sant’Angelo…).
Fin dalle prime pagine Picchi immagina di rivolgersi al figlio piccolo, Michele, con cui parla solo di cose semplici, del calcio o degli esami, e con cui ogni sera vede la Tv scambiandosi sguardi e sorrisi. Subito ci rivela il motivo per cui è attratto dal figlio, e cioè il fatto che Michele “accetta la realtà” con una dolcezza che non è rassegnazione ma abbandono: «accetti il cibo che ti viene dato, la malattia che ti colpisce, i regali che ti si fanno e i piccoli rimproveri». Mentre lui si sente attratto dal Maelstrom che lo inghiottirà: altro tema di queste pagine è infatti l’ossessione della bara, la paura di essere sepolti vivi ( Edgar Allan Poe)! L’ambiente è, come in quasi tutta la sua produzione, Roma, la “città palude”, ma ad essere più precisi, il vero setting è l’autobus, il filobus ( perfino nei racconti).
Come Augé è l’etnologo del metrò lui è l’etnologo del bus: il luogo semovente dove scruta gli altri – il «grigio fiume di esistenze» della folla solitaria – e dove si porta sempre un libro come compagnia. Nella prima parte molte pagine sono dedicate al suo mentore Palazzeschi, che «riunisce in sé la saggezza e la follia del vivere… più dei libri lo interessava la gente» ( recentemente è stato pubblicato il loroCarteggio, 1949- 1979, a cura di Anna Grazia Doria).
Politicamente, benché appartenente all’area “progressista” è tentato da un conservatorismo a tratti risentito, quando protesta contro la volgarità dell’“effimero” nicoliniano o quando parla degli “orribili” giovani, un’“orda” conformista “che detta legge”. Mentre sul caso D’Urso – il giudice rapito dalle BR e costretto, per salvarsi la vita, a confessare segreti di stato – si scopre feroce moralista. Costante la idiosincrasia verso tare e vizi nazionali: la diretta televisiva sul ragazzino dentro il pozzo di Vermicino è specchio del Belpaese, tra retorica cinica e «trastulli sentimentali». Impressionante l’invettiva contro il chirurgo Stefanini e Alberto Sordi, di cui descrive il viso: «sotto la bonomia il calcolo, sotto il sorriso il disprezzo, e la smisurata ambizione».
Suggerisco di leggere il libro come un esercizio spirituale. Nella “accettazione” della vita da parte del figlio gli sembra di scorgere una saggezza stoica, inconsapevole ma preziosa, che vede riprodursi anche altrove. Ad esempio descrivendo la cameriera gentile di un ristorante di Varsavia che servendolo schiaccia la pancia tra il muro e le sedie, annota: «è un modo d’essere, di esserci senza reagire altro che col proprio esistere; di occupare lo spazio che riempie il corpo e magari cercare di ritrarsi un poco». Si tratta di «una accettazione della propria parte con un abbandonoche non voleva dire remissività». La stessa disposizione che lo aveva colpito nel figlio. Quando poi questi ha dei problemi con la scuola lui si schiera tutto dalla sua parte. Il moderatismo borghese di Picchi ha una incrinatura, e lascia scoperto un nucleo eversivo: «Trovo promettente che un ragazzo non ami la scuola, le materie che vi s’insegnano e il modo di insegnarle».
Ho accennato all’arte del racconto. Di Roma di giorno – finalista al premio Strega – ne segnalo almeno uno, “Roma di notte”, dove dopo un piccolo incidente notturno ( sempre un autobus!) si ritrovano tutti a mangiare e bere in una trattoria sull’Appia, sotto una pergola: seguendo il suo Maupassant qui Picchi coglie la realtà lì dove si nasconde, alla superficie, e ritrae la effimera spuma dell’esistenza come potrebbe fare Renoir.
Infine. Pensando alla sua “religione” dell’understatement esistenziale, della semplice passività e di una quieta riduzione dell’io, alla sua idea ( che vede confermata dalla sociobiologia) del nostro corpo come mero veicolo di geni impegnati nella propria replica, forse Mario Picchi avrebbe desiderato restare nascosto tra i “minori” di qualsiasi manuale letterario. Non vorrei contrariare questa sua ispirazione zen. Leggetelo, ma senza citarlo nei salotti.