Robinson, 11 febbraio 2023
In fila per Vermeer
Se è presto per sapere quanti saranno i visitatori alla chiusura, il valore assicurativo fa registrare un primo record: 3 miliardi di euro per meno di trenta quadri, la stessa cifra raggiunta da Raffaello alle Scuderie del Quirinale nel 2020, dove gli oggetti esposti, però, erano 204. Per questa ragione il costo del biglietto è lievitato fino a 30 euro. Impossibile ottenere particolari sui dispositivi di sicurezza applicati: ci sono ma non si vedono, come è quasi invisibile il vetro che ripara le opere. L’obiettivo è dimenticare Boston: attivisti per il clima che lanciano minestre o aspiranti Lupin sono avvisati.
Il direttore del Rijksmuseum Taco Dibbits siede sulla panchina blu tra un Vermeer e l’altro, tirando il fiato dopo gli ultimi ritocchi e provando a rispondere alla domanda: perché lui e un altro pittore no? Perché un pianeta iperconnesso adesso fa la fila davanti all’artista più offline possibile, il solo in grado di dipingere il silenzio? «La risposta è già nella domanda – dice – In tanta confusione, Vermeer ci restituisce un momento di felicità assoluto. Con lui tutto torna al suo posto. Il suo mondo non era così diverso dal nostro: viveva nell’Olanda in guerra, in un periodo storico di confusione politica e sociale, ma, nonostante questo, riusciva nell’intento di creare spazi di grandissima intimità, gli stessi in cui ora vogliamo ritrovarci con lui». Nemmeno il pittore olandese aveva visto così tante sue opere tutte insieme. L’idea di tentare l’impresa è venuta aDibbits quando, nel 2020, la Frick Collection di New York ha chiuso per la ristrutturazione: portare oltreoceano i Vermeer americani sembrava una missione della Nasa. E invece l’istituzione ha accettato di prestare i suoi tre quadri. A ruota l’ha seguita il Metropolitan, che ne ha concessi tre su cinque. La National Gallery di Washington, per non sfigurare, ne ha inviati quattro, ma uno,
La ragazza con flauto,
lo scorso ottobre è stato espunto dal catalogo dell’artista, e attribuito a un anonimo apprendista. Qui ad Amsterdam, però, non sono d’accordo: risulta esposto come un Vermeer autentico, accanto alla
Ragazza con cappello rosso.
Così come l’altro quadro messo in discussione:
La giovane seduta al virginale
della Leiden Collection di New York. «Non ho dubbi – chiarisce Dibbits – Entrambi i dipinti oggetto di dibattito sono di Vermeer. Si possono solo paragonare alle opere certe, non assomigliano a quelle di nessun altro artista. Vermeer lavorava come un compositore, avvalendosi di una partitura di oggetti che erano sempre gli stessi, ma disposti ogni volta diversamente, creando perfette illusioni. Tutti questi elementi sono legati dalla luce. È impossibile vedere la pittura: la qualità è fotografica. Sembra di essere lì con queste figure che non si sono ancora accorte di te. Tra un secondo ti scopriranno…».
Misteri irrisolti
Noi non scopriremo lui, però. Sembra di essere davanti ai fotogrammi di un film hitchcockiano con oggetti dipinti sulla tela che rimandano a misteri da risolvere: mappe e quadri fuori fuoco appesi alle pareti, scrigni indiani che nascondono gioielli e segreti, bicchieri, brocche d’argento, lettere che si ricevono o si scrivono, dentro interni in cui, apparentemente, non sta accadendo nulla. Di Vermeer i documenti scarseggiano. Si sa che trascorre a Delft – 70 chilometri da Amsterdam – tutta la vita. La dipinge due volte, almeno, nella Veduta, che faceva impazzire Marcel Proust, e
nella
Stradina. A ventun anni, nel 1653, sposa una donna cattolica, Catharina Bolnes, e si iscrive alla gilda di San Luca. È un pittore, sì, ma soprattutto vive commerciando e stimando dipinti di altri: forse lui ne realizza appena due all’anno, si tratta di supposizioni, però. Nel 1670, eredita dalla madre il Mechelen, la locanda di famiglia, i problemi economici, intanto, non mancano: nel 1657 chiede un prestito di 200 fiorini; nel 1675, prima di morire, addirittura di 1000. La vedova è costretta a dichiarare fallimento, lascerà i quadri del marito a un tipografo. Un documento appena ritrovato racconta di un funerale sfarzoso, forse pagato dalla ricca suocera, con la bara spostata da quattordici portatori il 16 dicembre 1675. Troppo poco per capire chi fosse davvero Vermeer.
Gesuita euclideo
«Vermeer fu influenzato dai gesuiti – spiega Gregor J.M. Weber, curatore della mostra e autore del saggio
Johannes Vermeer. Faith, Light and Reflection – È un elemento finora sottovalutato ma sempre più evidente. A Delft i gesuiti erano praticamente i suoi vicini di casa. Possedeva di sicuro un libro di Pietro Canisio e due dei suoi figli erano stati battezzati nella fede cattolica con i nomi dei fondatori: Francesco (Saverio) e Ignazio. Ma, soprattutto, per la Compagnia di Gesù gli studi sull’ottica erano parte integrante dell’educazione religiosa: Dio è luce e lo specchio riflette l’universo. I gesuiti utilizzavano la camera oscura così come doveva fare anche il pittore per studiare gli oggetti da riprodurre su tela. Lo prova il fatto che, nelle sue opere, alcuni particolari risultano fuori fuoco rispetto ad altri». Secondo Weber, i dipinti di Vermeer sarebbero diretta conseguenza del rapporto con i religiosi cattolici che ad Anversa avevano ottenuto che la loro chiesa fosse decorata da Rubens. «Solo apparentemente si tratta di misteri, sappiamo poco, ma dei significati c’erano. La Donna con la bilancia della National Gallerydi Washington rimanda al Giudizio universale, mentre l’Allegoria della fede cattolica del Met potrebbe essere stata proprio commissionata dai gesuiti, come si evince dai simboli».
Blu oltremare
In vista dell’esposizione dei record la pittura di Vermeer è stata letteralmente analizzata ai raggi x. A capo dell’équipe di studiosi c’è l’italiana Francesca Gabrieli. «Il nostro compito è quello di realizzare una mappatura chimica dei quadri dell’artista per indagarne le tecniche – racconta – Si tratta di approfondimenti utili per un artista di cui si conoscono così pochi documenti. Finora abbiamo condotto ricerche non invasive su 11 dipinti. Il pigmento più adoperato risulta il blu oltremare: la sua ossessione. Sono emersi anche numerosi pentimenti, cancellature. Nella Lattaia, per esempio, più oggetti, alla fine, sono stati coperti da un fondo neutro. Anche La stradina presenta numerosi cambiamenti. L’idea che fosse lento nel dipingere forse va rivista».
Testi gesuiti e avanzate tecnologie di scansione non bastano a sciogliere gli enigmi. Vermeer resta ancora la Sfinge di Delft, come lo definì nel 1866 il giornalista francese Théophile Thoré sulla Gazette des Beaux-Arts. Più lo interroghiamo e più ci sfugge. La Ragazza con l’orecchino di perla continua a sfidarci. Vermeer, anche stavolta hai vinto tu.