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 2023  febbraio 11 Sabato calendario

Intervista a Bruno Arpaia


Svanire dalla memoria della propria madre e rimanerne orfano prima della sua morte. È una voragine di dolore e smarrimento quella che scava progressivamente l’Alzheimer: malattia che cancella i ricordi e consegna tutto all’oblio. Chi ne è colpito finisce col non riconoscere anche le persone più care. Da qui il titolo del nuovo libro, intenso e commovente, di Bruno Arpaia: Ma tu chi sei. Perché nella voragine che scava l’Alzheimer, anche il volto di un figlio finisce col risultare estraneo, senza nome. Bruno Arpaia ci mette di fronte all’incalzare del «morbo dell’oblio» e al vuoto che crea, allo «smisurato senso di perdita e di lutto»: non c’è più spazio infatti per la relazione tra madre e figlio quando tua madre non ti riconosce più e smarrita ti chiede, appunto, «ma tu chi sei?».
Questa domanda ricorre nel susseguirsi ossessivo di domande, sempre uguali, che scandiscono le ripetute visite che il figlio, l’autore, fa alla mamma novantaduenne: «A che ora parti?», «Cosa hai mangiato a pranzo?», «Fa freddo fuori?». Visite che a loro volta scandiscono la narrazione, tra riflessioni filosofiche sul tempo e sull’identità, e approfondimenti scientifici sul funzionamento del nostro cervello, sulla memoria e il suo declino. «Non è un’autobiografia», chiarisce nelle prime pagine Arpaia, ma non c’è finzione nel raccontare il dolore e la paura che si insinuano nella quotidianità, quando nella quotidianità di un genitore irrompe l’Alzheimer. «Uno tsunami che spazza via tutto». La malattia è entrata nella vita dello scrittore «cinque, sei anni fa: un Alzheimer tardivo. Io, malgrado tutto, non volevo vedere, non volevo capire».
Difficile accettare la malattia?
«Una malattia fisica la vedi. L’Alzheimer invece è una malattia strana, che si insinua piano piano ed è difficile da accettare perché noi siamo anche i ricordi che gli altri hanno di noi e soprattutto che una madre ha di te. Nel momento in cui svaniscono anche la tua identità crolla. All’inizio pensavo che le sue dimenticanze fossero stranezze della memoria: capita a tutti in fondo di non ricordare a volte un nome o di non riconoscere una faccia. Poi i segni sono diventati talmente evidenti che non ho potuto che assecondare la malattia. Seppure con difficoltà. Perché, come ha detto benissimo Milan Kundera, l’oblio è una forma di morte sempre presente all’interno della vita».
Perché questa volta ha scelto la scrittura autobiografica?
«Penso che la scrittura non sia un confessionale né che abbia una funzione catartica: non credo che ci si possa rifugiare nel conforto della funzione terapeutica dello scrivere. Per me scrivere significa conoscere e questa volta, in maniera diversa rispetto al passato, ho voluto cercare il modo di conoscere e comprendere quella sensazione di fine, di pericolo incombente, che mi opprimeva. Una sensazione di vulnerabilità legata sia a vicende personali – la malattia di mia madre, la morte di carissimi amici, Pietro Greco, Luis Sepúlveda, di mia cugina – sia a vicende sociali, come la pandemia, il cambiamento climatico, l’instabilità politica. Ho pensato spesso alla famosa frase di Kafka: “è data una quantità infinita di speranza, solo non per noi”. Ecco allora che scrivere scegliendo di non mascherare la mia esperienza personale con le tecniche del romanziere, di non affidarmi alla finzione per parlare di quello che mi stava a cuore è stato l’unico modo che ho trovato».
A proposito di scrivere per conoscere, nella sua produzione letteraria ha sempre esplorato il confine tra realtà, immaginazione, memoria, storia, scienza, e ha costruito i suoi universi narrativi attraverso lo studio approfondito della letteratura scientifica. In “Qualcosa, là fuori”, per esempio, ha costruito un’Europa devastata dai mutamenti climatici seguendo le previsioni degli scienziati nell’ipotesi che sarebbe stato fatto poco o nulla per combattere la crisi climatica. Questa volta, nel raccontare come evolve il rapporto con sua madre a causa dell’evolversi dell’Alzheimer, illustra i meccanismi di funzionamento della memoria e del suo declino. E così ancora una volta un suo romanzo è una forma di divulgazione scientifica, un modo per comunicare la scienza.
«Sì: da 30 anni e più cerco di battermi per abbattere le barriere tra cultura umanistica e cultura scientifica. Nascono entrambe dalla curiosità, dalla voglia di conoscenza e dall’immaginazione. In questo libro per raccontare come funziona il cervello e come possono essere alterati i ricordi parto dalla mia esperienza, dai buchi, dalle mancanze, dalle stranezze della mia memoria, e lo faccio con onestà, mettendo insieme il racconto e la scienza. Lo scrittore fiorentino Valerio Aiolli dice che non si scrive un romanzo per raccontare una storia, ma si racconta una storia sotto forma di romanzo per arrivare a conoscere qualcosa. Per me scrivere è questo, esplorare anche i misteri della scienza e confrontarmi con le domande fondamentali: chi siamo, da dove veniamo, cos’è il tempo, cos’è il nostro cervello».
E allora, a proposito di domande fondamentali, senza ricordi chi siamo?
«Non siamo nessuno. La nostra identità è essa stessa una storia che ci raccontiamo. Una storia che si fonda sui ricordi, per quanto possano essere alterati e a volte addirittura falsi. La memoria infatti non solo accumula, registra, archivia, ma anche elimina, riduce, taglia, aggiunge, ingigantisce, confonde. La memoria inventa, affabula, racconta. Noi per esistere, dobbiamo raccontarci. Anche a noi stessi. L’Io è il bestseller delle storie del cervello: la narrazione, la finzione che ha avuto di gran lunga più successo tra noi sapiens. E il nostro Io è un amalgama fra i nostri ricordi del passato e del presente e i nostri progetti per il futuro. Le neuroscienze del resto ci insegnano che senza ricordi non abbiamo passato, ma nemmeno futuro: i ricordi sono fondamentali per immaginarlo. E allora penso a mia madre, alla sua memoria che va svanendo, e dunque anche al futuro che non le si spalanca più davanti, e non soltanto perché le restano ormai pochi anni. Ma perché perdendo i ricordi, il minuscolo faretto della sua coscienza illumina quasi soltanto il presente, tutto il resto sprofonda sempre più nel buio».
Passato, presente, futuro: il cervello è una macchina del tempo.
«Il cervello è una macchina di futuro: lo prevede sulla base dei ricordi immagazzinati. Per quanto possa sembrare strano, lo scopo principale della memoria non è guardarsi alle spalle, ma proiettarsi in avanti, immaginare e prevedere scenari a venire».
Allora la storia, intesa come forma di memoria collettiva, è fondamentale per progettare un futuro migliore?
«Assolutamente sì. Purtroppo però viviamo in un’epoca concentrata sul presente, sul tempo reale. Quando vado nelle scuole, ai ragazzi e alle ragazze dico che il furto più grave che hanno subito è il passato, perché questo impedisce loro di immaginare un futuro diverso da quello che si prospetta. Conoscere la storia è fondamentale per uscire dai binari in cui siamo incanalati e che ci stanno portando verso il disastro».
In questo libro, se da un lato ci fa conoscere sua madre a cui l’Alzheimer sta spazzando via i ricordi, dall’altro ci racconta di chi rischia di rimanerne soffocato: le persone con iperstemia. Perché?
«Sono sempre stato interessato alle neuroscienze e anni fa mi aveva affascinato e incuriosito la storia di chi convive con questa sindrome ed è in grado di ricordare quasi ogni singolo momento della propria vita. O, più drammaticamente, non è in grado di dimenticare nulla o quasi. Questo contrasto tra chi non ha più ricordi e chi invece è condannato a ricordare tutto esprime in fondo la nostra precarietà: viviamo in equilibrio su un crinale sottilissimo tra oblio e memoria. Se la nostra memoria affolla tutto rende difficile vivere e forse, come diceva Borges, sospetto persino pensare. Perché per vivere bisogna anche saper dimenticare».
Pagina dopo pagina il tempo della narrazione è scandito dalle visite a sua madre e l’incalzare del racconto è l’occasione per condividere con noi le sue riflessioni sul tempo, di cui in altri libri ha indagato il mistero e di cui adesso avverte il peso del trascorrere inesorabile.
«Penso di essere diventato scrittore proprio perché interessato al problema del tempo, prima dal punto di vista filosofico e sociologico, poi anche dal punto di vista fisico. Di fatto siamo sottoposti all’entropia: il tempo ci consuma. Come uomo, dunque, non posso fare a meno di vederlo come qualcosa che via via si esaurisce: da un certo momento in poi della vita sappiamo che ne rimarrà sempre meno, che avremo sempre meno pagine da sfogliare. E andare avanti con gli anni significa avvertire nel corpo il dolore del tempo.Invece, come scrittore, raccontare storie significa occuparsi del tempo, ogni racconto è intessuto di spazio e di tempo, e manipolare il tempo è la cosa essenziale che si fa in qualunque racconto. Puoi raccontare 24 ore in 700 pagine come Joyce o 30 anni in tre righe come Stendhal. In effetti mi sono occupato sempre del tempo nei miei romanzi, ma questa volta, in questo libro, c’è in maniera esplicita il mio tempo personale».
Visto che, come scrive, succede soltanto nei film e nei romanzi, cosa dovremmo dire a noi stessi prima che sia troppo tardi?
«Nel libro mi riferisco a quello che non riusciamo a dire alle persone che amiamo prima che se ne vadano. Rispetto alla sua domanda invece penso che con umiltà dovremmo dirci che siamo una fluttuazione quantica nell’universo: ci crediamo dominatori di questo pianeta e non solo, ma non lo siamo. Quando i miei amici di “Friday for Future” e “Extinction Rebellion” mi dicono “dobbiamo salvare il pianeta”, io ribadisco che il problema è salvare noi stessi: il pianeta andrà avanti a prescindere da noi, siamo una delle possibili milioni di specie che si sono estinte nei quattro miliardi e mezzo di vita della Terra. Siamo una specie invasiva e dannosa, e non la specie in cima alla scala evolutiva»