Tuttolibri, 11 febbraio 2023
Ritratto di Gian Carlo Fusco
Ai quaranta-cinquantenni d’oggi, che l’hanno scoperto e imparato ad amare sulle pagine della sua opera più stilizzata e parodistica, il noir Duri a Marsiglia, appare come un precursore, un pioniere addirittura, del New Journalism in versione nostrana. Ai più attempati appare, invece, come l’ultimo esponente di un giornalismo romantico e irripetibile, al confine con la letteratura: frutto estremo e solitario di un clima e una temperie culturale abbondantemente defunti. Cionondimeno, da qualunque punto d’osservazione la si esamini, la scrittura di Gian Carlo Fusco (La Spezia, 1915 – Roma, 1984) non cessa di scintillare e la sua personalità di irriducibile battitore libero di ammaliare gli ancorché sparuti liberi pensatori dei giorni nostri. Era già un reporter anomalo, ha sancito Natalia Aspesi, ai tempi del suo massimo successo, ovvero nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, che sono poi gli anni di Arpa e cannone. L’Italia, uscita di slancio dalle rovine della guerra, s’appassionava ancora alle cronache di vita quotidiana, ai casi umani, alle storie dei tipi originali; condivideva la pietas del giornalista per le figure marginali e sorrideva alle sue arguzie in bilico tra una commedia di Achille Campanile e il teatro di varietà; ma s’accingeva già a cambiare pelle e gusti. Fusco era showman di persona, nella vita, e, con molto maggior autocontrollo, sulla carta stampata. Spezzino di nascita, ma cresciuto in Versilia, era ritenuto il columnist più popolare sulla piazza. Di certo, il più estroso. Alle spalle aveva una vita che ne valeva dieci: per due terzi autentica e accertata, per un terzo gonfiata o inventata di sana pianta. Pugile, ballerino, in fuga dal collegio, in fuga per antifascismo e per amore, in contatto, e forse in affari, con il milieu marsigliese; poi guerra, deportazione, prigionia e, ancora, animatore di dancing e casinò, agit prop per il Pci, cacciato con ignominia da casa e dal partito, bohème, miseria, vita da senzatetto, fino alla scoperta delle sue portentose doti di affabulatore e cronista da parte di Manlio Cancogni e degli altri intellettuali del Mondo.
All’epoca in cui inizia a collaborare con Successo, neonato mensile della Palazzi diretto in tandem da Arturo Tofanelli e Giuseppe Luraghi, è la stella indiscussa del quotidiano più ammirato e influente d’Italia: Il Giorno di Gaetano Baldacci. Ed è corteggiatissimo dagli altri media, cinema, radio, televisione, teatro, attratti tutti dalla sua forza inventiva e da quella vena satirico-umoristica che pare non esaurirsi mai. È un ossimoro vivente: il dandy dannunziano, lo stilista sopraffino, convivono in lui con il viveur sregolato. Cultore d’un vitalismo smodato, alla Hemingway, e aedo d’una mitologia maledettistica che coniuga disinvoltamente i fiori di Baudelaire con i coltelli a serramanico dei mafiosi italofrancesi e le Magnum di Costello e Lucky Luciano, Gian Carlo si dissipa ogni santo giorno fino alle ore piccole tra bar, osterie, dancing e night-club, senza tralasciare qualche puntata nei salotti e nei circoli altoborghesi. Nel lavoro è l’opposto: sa mantenere l’aplomb, convertire esuberanza e facondia torrenziale in eleganza di tocco, garbo, misura classica. Il narratore infiora e colma talvolta le lacune con l’immaginazione, sia in veste di cronista dell’attualità che in quella di cronista storico; e però, risulta in ogni caso credibile perché, come ha scritto una volta per tutte Cancogni, il suo mentire è un modo di approfondire la verità.
Quando Arturo Tofanelli lo imbarca sulla sua corazzata carica di ambizioni editoriali e di tutte le grandi firme dell’epoca, gli affida una rubrica a tutta pagina, e Fusco replica pari pari lo schema del Giorno, pantografando un collaudato repertorio di temi e di registri. Sul mensile può giostrare in uno spazio che è cinque o sei volte quello assegnatogli sul quotidiano e può quindi sbrigliare la sua verve narrativa, ampliare racconti, ritratti e commenti. Con risultati spesso smaglianti. Molti di questi pezzi sono così elaborati, umoristici e fantasiosi che si ha la netta impressione che siano stati concepiti per il teatro o il cabaret, oppure che siano abbozzi di sceneggiature cinematografiche. E, forse, era proprio quella la loro destinazione finale. La diade del titolo suggerisce, o dovrebbe suggerire, un’alternanza di botte e plausi, ma non pare del tutto calzante allo svolgimento in quanto Fusco rifugge sia dalle sviolinate e dagli accenti sentimentali che dalle bordate e dalla voce grossa: accarezza o, al contrario, punge, guidato sempre dall’ironia. È il più umano dei fustigatori. Un filo rosso attraversa, casomai, questo deposito finora inesplorato dei suoi estri e cavalli di battaglia, ed è il Leitmotiv dell’eterno ritorno. Dal Risorgimento in poi, la storia italiana è tutta un déjà vu: un festival di voltagabbana, gattopardi e opportunisti vari, un lifting ingannevole dei soliti – si direbbe perenni – tic e vizi nazionali.