La Stampa, 11 febbraio 2023
La figlia di una sarta. L’ultimo romanzo di Mastrocola
Estratto da La memoria del cielo di Paola Mastrocola (Rizzoli)
A casa nostra venivano le clienti a misurare i vestiti. E questa era un’altra prova, forse la più terribile. Non era premeditata, quindi non era colpa di nessuno: stava scritta, era nell’ordine delle cose e non c’era nessuna possibilità che mi venisse risparmiata. Io ero lì, indifesa: ero la figlia della sarta, e le clienti arrivavano come missili di una guerra che non avevo mai deciso di combattere.Mia madre diceva solo misurare, vestiti era sottinteso. Diceva: «Oggi viene la Pansotti a misurare». «Domani viene la Serti a misurare...». La Bocciardi, la Pastafilla, la Bonadio, la Taschi Berdini, la Crociati... Cognomi infiniti che ronzavano in casa, e che solo certe volte sapevo associare a un volto. Perlopiù rimanevano suoni sospesi nel vuoto.
Le clienti erano sempre le signore. “Fare la signora” voleva dire non lavorare, e quasi nessuna delle clienti di mia madre lavorava. C’era la moglie del notaio, la moglie dell’avvocato, la moglie del farmacista, le Maldorini madre e figlia che venivano da Cherasco, la moglie del dottor Frangoni con le due figlie, la vedova dell’ingegner Vanisio, le sorelle Rebecchi, figlie di un industriale, che erano rimaste entrambe zitelle. Tutte signore. Imparavo quei nomi, e di alcune anche le storie che mia madre mi raccontava mentre cuciva. Per esempio che il marito della Vanisio l’aveva riempita di corna tutta la vita: «Sai, brutta com’è...!». O che la Frangoni se la spassava con un altro e lo sapevano tutti, tranne il marito. Che le Rebecchi, pur essendo ricche, non le aveva volute nessuno, ma forse era perché a loro non piacevano gli uomini. Storie così, che stavo a sentire al posto dei libri di favole. Le clienti erano un mondo che non conoscevo, tanto quanto quello delle favole. Erano infiniti mondi che entravano, palloni che qualcuno aveva calciato chissà dove e rimbalzavano per caso in casa nostra. O mongolfiere che si erano intrappolate e transitavano per un attimo nelle nostre stanze. O meteoriti. O lampi sul mare in tempesta. Non so. Ma credo non sia uguale vivere in una casa dove vengono le clienti o in una casa normale dove entrano soltanto parenti e amici, sempre gli stessi, a prendersi un bicchier di vino nei pomeriggi di festa. È diverso. È qualcosa che determina la vita in un senso o in un altro, credo.
Venivano a misurare i vestiti due o tre volte, i missili. Le mie giornate piane e monocordi erano rotte dal campanello del citofono. Si rompeva il mondo, a quel suono. Il perfetto equilibrio di me e mia madre sole nell’universo se ne andava a gambe all’aria, tutto distrutto da quell’irrompere che non potevo ignorare. Il citofono suonava, mia madre apriva le luci dell’ingresso, poi la porta, poi faceva entrare la cliente, e io chiusa in cucina, ancora al riparo, sentivo i buongiorno buonasera e intravedevo solo l’ombra innocua della cliente sfilare al di là del vetro smerigliato. Poi una pausa, più o meno lunga, il baratro dell’attesa, e la frase che si abbatteva su di me: «Donata, vieni a salutare!».
Lo sapevo, era previsto. Ma ogni volta l’inesorabile compiersi della violenza mi sorprendeva impreparata. Ero costretta a uscire dal nascondiglio e mostrarmi. Comparire, dire buongiorno, rispondere alle domande, ascoltare le moine: «Ma come sei bella», «sei già così grande», «e che brava bambina», «chissà come aiuti la mamma». Ogni volta pregavo che non succedesse. Che non mi stanassero, che scendesse qualcuno dal cielo a salvarmi. Invece non scendeva mai nessuno e mia madre mi stanava, aveva quella mania di stanarmi. Stava di là a misurare e poi, non sapevo mai se e quando, mi chiamava: «Donata, vieni a salutare!». Impossibile schivare. Se fingevo di non sentire ripeteva il mio nome sempre più forte: «Donata, Donata!». Certe volte, mentre già le accompagnava all’uscita e io pensavo di averla scampata, di colpo spalancava la porta della cucina e io ero il topo inerme, beccato nella maleodorante tana piena di cacche.
Perché mi faceva questo? Possibile che non capisse? Erano le clienti che le chiedevano di vedermi o era lei che voleva mostrarmi? Cosa c’era mai da mostrare? Forse pensava che non era educazione, se sua figlia non andava a salutare. La sarta ha una figlia, e la figlia della sarta deve salutare le signore. Forse c’era questo serpente che si mangiava la coda.
Avevo addosso il grembiulino, questo è il punto. Non l’avessi avuto, sarebbe stata un’altra storia. Lo dovevo portare sempre, era la divisa da casa: appena alzata mi lavavo, mi vestivo, e sopra i vestiti infilavo il grembiulino, così già per fare colazione ero pronta. Potevo toglierlo solo se uscivo e per andare a dormire. Era per non sporcarmi, mantenere i vestiti buoni al riparo dalle macchie e dall’usura, così duravano più a lungo e si lavavano di meno, facendoci risparmiare acqua e detersivo.
Mi vergognavo, col grembiulino. In particolare quello rosso, smanicato, con un grosso fiore giallo applicato sulla tasca. Sarà stato quel fiore gigante. O perché era smanicato. Avesse avuto le maniche avrei sopportato meglio? Già solo il suono m’inorridiva, quel finale in “ino”, come fularino. Insomma, non lo so cosa fosse a farmi provare tutta quella vergogna. Forse era che le signore erano bellissime, e davanti a loro sfiguravo, col grembiulino. Mi pareva di essere l’unica al mondo, di sicuro loro non l’avevano mai portato da piccole, né lo mettevano alle figlie. Erano così perfette... E la perfezione non era perché avevano i gioielli, le pellicce, gli abiti eleganti o l’autista che le aspettava sotto. Era qualcosa che possedevano in più, qualcosa che non dovevano comprare o decidere di mettere in mostra, ma che sembrava nato con loro e veniva fuori comunque, che lo volessero o no. Non sapevo dire esattamente cosa fosse. Anche solo il fatto che venissero dalla sarta, per esempio. Mia madre non aveva una sarta, era la sarta. E io ero la figlia della sarta. Col grembiulino.
Misurava le clienti in quello che noi chiamavamo il salotto, l’unica stanza che avevamo oltre la cucina e la camera da letto dei miei dove, in un angolo, c’era anche il mio lettino. Puntava gli orli con gli spilli. Se ne teneva quattro o cinque in bocca per prenderli più comodamente, senza pescarli ogni volta dalla taschina. Per puntare bene la lunghezza, si inginocchiava. Stava lì inginocchiata un bel po’, intorno alla gonna della cliente, col viso all’altezza delle sue gambe. Quando mi toccava entrare a salutare, avrei dato non so cosa per non vederla inginocchiata, girare in tondo a quattro zampe, con la bocca piena di spilli che pregavo non ingoiasse. Un gatto succube, ai piedi delle signore. —