la Repubblica, 11 febbraio 2023
Le macchie di Annie Ernaux
In un castello della Loira è possibile vedere, incrostata nella pietra di un gradino, una macchia di sangue. È di un uomo assassinato durante la notte di San Bartolomeo, una macchia vecchia più di tre secoli. Non ricordo il nome del castello, né se il sangue sia di un cattolico o, più verosimilmente, di un protestante. Non so nemmeno se quella macchia esista davvero. È stata la signorina Aubé a raccontarci questa storia alle elementari, non l’ho mai dimenticata.
Sono affascinata dalle macchie, di sangue, di sperma, impresse sulle lenzuola o sui materassi logori abbandonati sui marciapiedi, le macchie di vino e di cibo, incrostate nel legno di tavoli e credenze, le tracce di caffè e le ditate unte sul retro delle vecchie foto passate di mano in mano alla fine dei pranzi di famiglia. Macchie organiche, materiali. È il tempo umano, animale, impresso e fissato, divenuto materia.
In tutt’altra direzione, le ombre dei mobili disegnate sulle pareti al tramonto, le macchie di sole nella penombra di una camera in estate. L’evanescenza e la leggerezza della luce. Dell’aldilà.
Mi ricordo la grande macchia rosata, acqua e sangue, lasciata sul cuscino del letto dei miei genitori dalla gatta morta che, al mio rientro da una festa al collegio, nel tardo pomeriggio, era già stata seppellita. Si era svuotata prima di morire, avvelenata dai gattini già morti all’interno del suo ventre.
La leggera traccia rossa sulle mutandine che per diversi mesi ho conservato nell’armadio, nascoste sotto i vestiti, a diciotto anni. Quelle che avevo indossato al mattino dopo la mia prima notte con C. e che testimoniavano la mia semi-deflorazione.
La grossa macchia scura, che resisteva a ogni lavaggio, su un lenzuolo appartenuto a mia nonna, deceduta. Medicamenti, tintura di iodio, diceva mia madre. Io quel lenzuolo nel mio letto non ce lo volevo.
Una chiazza di gelato al cioccolato su una pagina della grammatica latina dell’abate Ragon che ho usatodalle medie fino al quarto anno di liceo. Era colata da un cono che mia madre mi aveva portato “dalla città” in un’afosa giornata di mercato, nell’estate dei miei tredici anni. Sulla via del ritorno lei aveva allungato il passo ed era arrivata tutta sudata, ma il gelato aveva già cominciato a sciogliersi. L’avevo mangiato subito, nella mia stanza, mentre ripassavo le coniugazioni dei verbi latini per l’inizio dell’anno scolastico. Il frigorifero non l’avevamo. La macchia è ancora lì, fissata indelebilmente da una striscia di scotch che, più tardi, è servita a riparare uno strappo sulla stessa pagina. Era l’amore a fondo perduto di mia madre.
La cornice nella camera dei mieigenitori con la raffigurazione in bianco e nero, sfocata, di un viso maschile emaciato, sofferente, gli occhi chiusi. Da bambina quel quadro mi spaventava. A lezione di religione ho conosciuto la storia di santa Veronica che aveva posato il velo, quello con cui si copriva i capelli, sul volto insanguinato di Cristo morto sulla croce, imprimendovelo per l’eternità. Era una sorta di foto, insomma. Mi turbava, Cristo sembrava unuomo qualunque.
La cartolina che mi aveva regalato un’amica di Le Havre, una fotografia della regina Elisabetta II d’Inghilterra nel giorno dell’incoronazione. Sul retro c’era una macchiolina marrone la cui natura indefinibile mi ripugnava, al contrario di quanto sarebbe accaduto con una macchia identificabile, ad esempio di inchiostro o di rossetto. Non sono mai riuscita a guardare quella foto della regina senza associarla subito al pensiero della macchia sul retro. Adesso quella cartolina, che non ho più, non mi provocherebbe alcun disgusto, avrebbe il valore affettivo di una cosa degli anni Cinquanta.
Un romanzo giallo della collana Le Masque che mio zio Raymond leggeva e rileggeva, intitolato Macchie di sangue. Avevo dodici anni, inevitabilmente pensavo a quelle delle mestruazioni. Ero ossessionata dal desiderio che venissero anche a me. Alcune donne dicevano «è da due anni che non ne vedo più», o chiedevano «quand’è l’ultima volta che ne hai viste?». Agli uomini servirebbe vederne, di sangue, per smettere di volerne versare.
In Kosovo, come in molti altri Paesi, dopo la prima notte di nozze i giovani mariti zigani esibiscono le lenzuola macchiate di sangue. Non solo, con il sangue e con lo sperma devono premurarsi di disegnare fiori, figure, che gli invitati sono chiamati a decifrare. Sul lenzuolo si legge il futuro. In seguito lo lavano con il vino, che si pensa sia in grado di togliere le macchie di sangue. Probabilmente serve soltanto a mascherarle. La macchia come realtà del mondo.
Vorrei che le mie parole fossero come macchie, mute e pesanti, alle quali non ci si può sottrarre.
(Da un reportage di “Là-bas si j’y suis”, andato in onda su France Inter il 27 aprile 1999) Traduzione di Lorenzo Flabbi I libri dell’autrice sono pubblicati in Italia da L’Orma