la Repubblica, 11 febbraio 2023
Scommettere sull’Africa
C’era una volta l’Italia che inventò la Quarta Sponda. Oggi nel Mediterraneo sembriamo non esserci più. Che succede?
«Non siamo più capaci di leggere e interpretare cosa avviene nel mondo perché siamo disabituati a misurare il peso delle parole. Ci troviamo di fronte a un tornante decisivo dopo il quale nulla sarà come prima. Eppure, non ce ne stiamo accorgendo. La guerra in Ucraina non è conclusa, né sappiamo quando finirà. Se qualcuno, il 24 febbraio 2022, ci avesse detto che il conflitto dopo un anno non sarebbe finito, non gli avremmo creduto. E invece la convivenza con una guerra lunga, allargata, sta diventando possibile.
Parallelamente, l’interconnessione del nostro mondo non è cambiata. Di qui, le grandi onde d’urto che dall’Ucraina partono e hanno un riflesso, così come una soluzione, nel Mediterraneo. La prima è quella energetica. L’Europa risolverà la crisi dell’energia iniziata in Ucraina nel Mediterraneo allargato, da Algeri al Cairo. Poi c’è la crisi alimentare. In Europa se si parla di impennata inflattiva si pensa ai prezzi del carburante. In Africa al rincaro dei beni di prima necessità, dal grano al pane. Il rischio di un dramma irrisolto è la destabilizzazione generale di un’area intera.
La Tunisia, unico Paese dell’Africa settentrionale ad aver attraversato, dopo il 2011, un processo democratico viene ora piegato dalla crisi economica: l’inflazione genera disaffezione politica, quindi tensioni sociali sempre più forti, con il reclutamento di tantissimi giovani nelle file dello Stato Islamico».
Ecco, le “primavere arabe”. Cosa è successo nel 2011?
«Noi europei abbiamo lasciato un popolo da solo. Perciò, abbiamo enormi responsabilità nell’esito fallimentare delle “primavere arabe”. L’intervento militare in Libia su iniziativa franco-britannica è stato disastroso. E siamo stati incapaci di comprenderlo. Stesso errore commesso in Afghanistan, che si è aggiunto ai precedenti di Iraq e Libia. Tutte esperienze che hanno trasmesso il messaggio secondo cui le grandi democrazie sono capaci nella promozione di iniziative militari, ma incapaci di dare continuità politica alle operazioni belliche. Alla Conferenza di Berlino del 2020, sulla carta si decise l’embargo di tutte le armi verso la Libia. Ma nulla è avvenuto di quanto stipulato. Si sa che certi princìpi sono firmati per essere disattesi. Nonesiste solo l’assolutezza del dogma.
Esiste la black diplomacy. L’Europa non ha né l’una né l’altra cosa».
A differenza delle grandi potenze imperiali.
«Il problema è proprio questo: nel 2019, con l’ingresso della Turchia in Tripolitania e della Russia in Cirenaica, abbiamo avuto il coronamento di due sogni imperiali.
Il primo è quello dei russi. Arrivando in Cirenaica, Putin compie il passo definitivo di un disegno in grado di toccare tre vette: Artico, Siria, Libia. E proprio per l’assenza di una risposta occidentale il disegno è proseguito in Ucraina. Guerra utile anche per capire quanto resta fondamentale e strategico il Nord Africa. Per quale ragione la Russia, in evidente difficoltà militare in Ucraina, non pensa di ritirare gli uomini del Gruppo Wagner da Cirenaica, Sahel e Repubblica Centrafricana per spostarli in Donbass? Perché continua a pensare all’Africa come quadrante strategico fondamentale.
Perché Vladimir Putin ritiene che l’Europa possa essere stretta in una morsa che è la stessa morsa dell’Africa».
E poi c’è il disegno imperiale turco.
«Che è parallelo a quello russo. Prima russi e turchi si ammazzavano, ora competono e cooperano. Soprattutto in Nord Africa. La dimensione imperiale turca è importante per capire come essere leader a livello internazionale permetta di essere leader in casa propria. Il presidente Erdogan si sta giocando tutto sulla dimensione globale di Ankara».
All’appello manchiamo noi europei.
«L’Europa non capisce che nel Mediterraneo allargato si gioca il proprio ruolo nel mondo. Perché Africa ed Europa sono due entità speculari. Non è pensabile la prosperità dell’Africa senza l’Europa, né un assetto stabile dell’Europa senza l’Africa. Entrambe vivono tre crisi tra loro collegate e tra loro risolvibili. Quella energetica, quella alimentare, ma soprattutto quella demografica. In senso opposto: l’Europa non fa figli, l’Africa ne fa tanti. Ed è nella crisi demografica che si gioca il futuro della cooperazione tra i due continenti.
Perché la crescita della popolazione è un fattore di potenza. Non capiamo che lasciare la gestione degli spostamenti di esseri umani ai trafficanti significa consegnare loro le chiavi delle nostre democrazie. Ma l’Europa si sta geopoliticamente suicidando».
Quindi, che fare?
«Inizierei da cosa non fare. Il progetto europeo non dev’essere un patto per le migrazioni. In Africa la possibilità di emigrare è considerata un’aspettativa vitale. I movimenti non sono sopprimibili. Poi, non dobbiamo regalare soldi a pioggia. I piani da cento miliardi non funzionano. Come testimonia il piano migratorio diviso in due tranche da tre miliardi stabilito dall’Europa con Turchia e Siria: ha funzionato perfettamente. Bisogna muoversi immediatamente. In Europa si parla di una strategia per la migrazione da battezzare nel 2024: siamo fuori dal tempo. Bisogna promuovere subito un piano da qualche miliardo di euro, per una stabilizzazione politica e sociale immediata, per la crescita economica e per la prosperità dei popoli.
Dobbiamo esigere che il futuro di questi paesi sia una priorità. È nel nostro interesse. Ciò significa intervenire in Tunisia non come sta facendo il Fmi, con un prestito, ma con un investimento. Dobbiamo trasmettere questo messaggio: l’Africa non è povera, ma è impoverita da classi dirigenti non degne di questo nome. L’Europa non deve muoversi come una democrazia interventista, deve avere una diplomazia esigente. Prendiamo il rapporto tra Italia ed Egitto.
L’Italia può avere molte opportunità di investimento, ma non deve mai dimenticarsi del caso Regeni. Per questo devono essere le istituzioni democratiche del nostro Paese a parlare con i paesi africani. Non altri attori, pubblici o privati che siano».
Mettere d’accordo 27 Paesi europei è impresa difficile, specie se in Africa hanno interessi diversi.
«Sì, in Europa nessuno si muove se si parla di redistribuzione di migranti.
Dobbiamo parlare di un piano per l’Africa da qualche miliardo in grado di difendere i confini, così da fornire una prospettiva economica ai Paesi africani e a quelli europei affacciati sul Mediterraneo. Integrazione e sicurezza sono due temi di strettissima attualità, basti pensare alle campagne elettorali giocate sul tema della sicurezza, ma sono anche due termini intimamente connessi.
Integrare meglio significa essere più sicuri. L’integrazione sbagliata genera terrorismo. Noi non possiamo avere una visione difensiva dell’Europa. Il tema demografico dev’essere messo al centro della nostra agenda. Anche perché, se non si affronta questo tema, l’Italia è finita».