Corriere della Sera, 11 febbraio 2023
La geopolitica spiegata da Sarcina
«Arrivai a Donetsk agli inizi di marzo del 2014. Putin aveva appena annesso la Crimea e ora progettava il passo successivo: occupare il Donbass e la striscia che costeggia il Mar d’Azov, da Mariupol fino ad arrivare a Odessa. Esatto: il piano del 2014 è identico all’obiettivo minimo del 2022, dopo che è fallito l’assalto a Kiev. Donetsk è una bella città, con un centro elegante, pulito. In quei giorni di marzo c’erano ancora le luminarie accese sugli alberi dei viali principali, sulle facciate dei teatri e dei ristoranti. La gente sembrava preoccuparsi soprattutto del freddo e accelerava il passo per rientrare a casa…».
Giuseppe Sarcina è uno tra gli ultimi grandi cronisti. Abituato a raccontare guerre, catastrofi, svolte della storia anche economica senza cedere nulla all’ideologia o ai pregiudizi, con una scrittura tutta fatti che è difficile se non impossibile contraddire perché ne traspare una totale aderenza alla realtà. Se nel 2015 è partito per gli Stati Uniti come corrispondente del «Corriere» non è solo per il prestigio della carica e per l’interesse del lavoro che lo attendeva. Pino – al «Corriere», dove lavora da 28 anni, lo chiamiamo così – presagiva che l’esperienza americana, prima a New York e poi a Washington, dov’è rimasto sino a poche settimane fa, avrebbe finito per chiudere il cerchio aperto dalla prima guerra in Ucraina, che aveva raccontato da reporter.
Chi non aveva capito quel che stava per accadere erano i leader europei. Che a lungo si sono illusi di poter delegare la difesa militare agli Stati Uniti, l’approvvigionamento energetico alla Russia, la manifattura a basso valore aggiunto alla Cina e all’India. Nessuno in Europa credeva davvero che Mosca avrebbe aggredito l’Ucraina. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron hanno tentato fino all’ultimo di far cambiare idea a Vladimir Putin. Invano. La guerra sui confini orientali del continente ha sconvolto i loro piani: Scholz pensava di proseguire la politica di dialogo avviata dalla Merkel, Macron aveva dichiarato la Nato «cerebralmente morta». Entrambi hanno dovuto dolorosamente ricredersi.
Anche Joe Biden aveva impostato il proprio primo mandato su una strategia ben diversa: proseguire il ritiro militare dall’Europa avviato da Obama e intensificato da Trump; coinvolgere la riottosa Russia nel vero confronto che gli interessava, quello con la Cina. Anche Biden ha dovuto ricredersi. Però l’ha fatto per tempo; e ha avuto il merito di capire non soltanto che la Russia avrebbe attaccato, ma anche che l’Ucraina di Volodymyr Zelensky avrebbe potuto resistere. E se la preoccupazione dell’Europa è tuttora non umiliare Putin e offrirgli una via d’uscita, l’America di Biden è tuttora convinta che Putin vada indebolito il più possibile, senza escludere affatto che la guerra possa creare le condizioni per cacciarlo dal Cremlino.
Il nuovo saggio di Sarcina – Il mondo sospeso. La guerra e l’egemonia americana in Europa (Solferino) – tiene insieme l’analisi geopolitica e il racconto di questo anno di guerra. La psicologia dei protagonisti, e le conseguenze economiche del conflitto. Gli ondeggiamenti dell’Europa occidentale, e la decisione dei Paesi dell’Europa nordorientale – a cominciare dal più importante, la Polonia, ma anche dei baltici e degli scandinavi – di fidarsi ormai solo degli Stati Uniti, con buona pace di Parigi e Berlino.
L’ultimo capitolo è dedicato alla politica estera italiana. Che, piaccia o no, con l’uscita di scena di Mario Draghi ha perso una parte della propria autorevolezza. L’autore racconta l’esordio internazionale della prima donna presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al G20 di Bali. Un appuntamento che non è andato male, neppure con gli americani. Eppure dalle pagine di Sarcina si deduce una considerazione: sarebbe un errore per la Meloni affidarsi esclusivamente al rapporto costruito con Washington in nome della solidarietà atlantica, trascurando l’alleanza con gli alleati europei. Anche perché Joe Biden, dietro l’apparenza «morbida», nasconde una personalità spigolosa.
Scrive Sarcina, alla luce della sua esperienza settennale alla Casa Bianca: «Molti politici americani, che siano governatori di uno Stato, deputati o senatori, presto o tardi, sviluppano un evidente complesso di superiorità. Questo fenomeno, naturalmente, è ancora più visibile con i presidenti. È come se si mettesse in moto una specie di “transfert”: il primato mondiale del Paese in termini militari, economici e tecnologici colloca automaticamente il titolare della Casa Bianca in una dimensione dominante, anche in termini personali, rispetto a tutti gli altri capi di Stato o di governo. Poi ciascuno ci aggiunge del suo. Donald Trump si considera, parole sue, “una persona di una categoria e di un’intelligenza superiori”; Biden si ritiene lo statista “più esperto” dell’intera Nazione e, quindi, va da sé, del mondo intero. Non bisogna farsi trarre in inganno dai toni amichevoli, dai sorrisi, dalle pacche sulle spalle. “Noi siamo gli Stati Uniti, nulla ci è precluso” ripete continuamente Biden e aggiunge: “Noi siamo i leader dell’Occidente”. Come sempre, c’è anche una luce, un riflesso morale. Il presidente lo spiegò qualche giorno dopo il vertice di Bruxelles ai paracadutisti della “82nd Airborne Division”, nella base di Rzeszow, una città a circa cento chilometri dal confine con l’Ucraina, in occasione della visita in Polonia, quella del “Putin non può restare al governo”. I consiglieri della Casa Bianca avevano ordinato la pizza che fu servita nel cartone. “Joe” si era presentato senza cravatta, con una camicia blu sbottonata. Si era seduto in mensa con i soldati. Qualche battuta, qualche risata e poi il fervorino: “Siamo, siete nel mezzo di uno scontro epocale; non voglio sembrare troppo filosofico, ma è così. È uno scontro tra la democrazia e le oligarchie. Non siete qui solo per alleviare le sofferenze del popolo ucraino. Qui è in gioco qualcosa di molto più grande. Chi vincerà tra noi e loro? Tra i nostri e i loro valori?”».
Se non capiamo questo, non abbiamo capito l’America.