Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 11 Sabato calendario

Intervista a Fabio De Luigi

Un altro al posto suo non si sarebbe più ripreso. Preso a male parole da Marco Ferreri, uno dei suoi idoli, su uno dei suoi primi set. Ma Fabio De Luigi non si è lasciato scoraggiare. «Ho un ricordo molto vago, devo aver un po’ rimosso. Stava girando a Rimini il suo ultimo film, Nitrato d’argento. Io all’epoca ero abbastanza conosciuto in zona, facevo i miei spettacoli, e la casting director mi contattò per propormi un paio di pose. Giravamo una scena all’interno del celebre cinema Fulgor, dove si proiettava La grande abbuffata. Io interpretavo uno del pubblico. In uno dei ciak sbagliai non so più cosa. E ho urlato: Stop! Mi voleva picchiare. È uscito dalla sua postazione e mi ha urlato dietro. Io: mi scusi. Non l’ho mai rivisto. Il vantaggio, diciamo, è che da lì tutto è stato in discesa».
Non è il tipo da farsi prendere dal panico De Luigi. Cinquantacinque anni compiuti lo scorso ottobre, tanto mestiere declinato tra cabaret, televisione, cinema, ha imparato forse dal baseball – sport che ha praticato da professionista – l’arte di attendere il momento giusto. Anche per le rivincite. Com’è stata la sua seconda volta da regista, Tre di troppo, dove ha recitato al fianco di Virginia Raffaele, che, uscito il 1° gennaio,ha superato i 4.700.000 euro di incasso. Un vero lusso di questi tempi.
Buona la seconda?
«Mi era rimasta la voglia di misurarmi con la regia, dopo la prima esperienza, con Tiramisù del 2016. C’erano cose che non mi erano piaciute, errori, ingenuità, cose che avrei potuto gestire meglio nel doppio ruolo di regista e attore. È una commedia familiare su un tema che mi divertiva ma non solo, un film di coppia dove potessi lavorare con un’attrice che stimo come Virginia, ho pensato subito a lei».
Fare l’attore non le basta più?
«Mi sembra importante raccontare dal mio punto di vista, ho il sacrosanto desiderio di farlo. Ho sempre seguito da vicino, collaborato con i registi. Con la mia opera prima, Tiramisù, sono severo, sono il peggiore critico nei miei confronti. Cerco, spesso pur facendo commedie larghe o popolari, di metterci attenzione e amore».
Questa volta racconta una coppia che non vuole figli ma se ne trova, letteralmente, in casa tre e entra in crisi. Perché questo tema?
«La rottura dell’equilibrio in genere è voluta, si sceglie di diventare genitori, sapendo che cambieranno gli equilibri in casa. In questo caso i due protagonisti si trovano da un momento all’altro trascinati in una realtà inaspettata».
Lei recita, dirige, e balla. Di Virginia Raffaele conoscevamo già le doti, danza anche con Roberto Bolle. Lei invece l’avevamo lasciata ai balletti di Mai dire gol. Ha studiato?
«La passione dei due per il ballo era un modo per raccontare un’affinità di coppia che funziona. Sul set abbiamo preso un bravo coreografo, mi ritagliavo qualche ora per fare esercizio. Mi muovo a tempo, credo. Ma non ho le basi. Diciamo che ho lavorato di montaggio».
Il momento più bello sul set da regista?
«La cena di fine produzione. Come tutti gli impegni di lavoro, li affronto con lo stesso spirito: spero di scavallarli».
Tra le tappe della sua biografia ci si imbatte anche nel baseball. Ha fatto sul serio.
«Ero un buon giocatore, un giocatore onesto».
Perché non scelse il calcio come tutti?
«Io sono di Santarcangelo, da noi quando ero ragazzino c’erano quattro o cinque squadre di baseball di quartiere, come possono esserci in una cittadina Usa o a Cuba. Erano i primi anni ‘80, c’era il mito del gioco del baseball».
Che ha regole molto complicate da capire, per alcuni impossibili.
«Con il senno di poi, mi viene da pensare che forse io mi sono avvicinato proprio perché non ne capivo le regole, per curiosità. Giocavamo nel vecchio campo da calcio riadattato. Ci sono delle bolle di questo gioco in Italia: Nettuno, Milano, nate speso intorno alle basi Nato».
Le capita ancora di fare qualche partita?
«Non posso più giocare, è troppo complesso. Non è come dare due calci a un pallone».
Si ricorda cosa voleva fare da bambino?
«Volevo fare quello che faccio, ho sempre voluto fare questo mestiere. Ma non l’avevo confessato a nessuno, tranne che a me stesso. Mi sembrava impossibile, solo la fantasia di un bambino. Dunque pensavo a strade alternative, tipo grafico pubblicitario, che allora era un mondo in espansione. C’era una scuola a Urbino a numero chiuso, ho tentato quel percorso, poi l’Accademia di Belle Arti. Ma era un modo per perdere tempo. Poi ho fatto il concorso Zanzara d’oro a Bologna, la selezione era selvaggia, mille persone al Teatro Duse. Mi presero».
Come reagirono a casa?
«Con una discreta dose di imbarazzo lo dissi ai miei, minimizzando».
Ma poi non smise più e se ne andò a Milano.
«C’era lo Zelig, il locale, che mi dava la possibilità di trovare quello che cercavo. Era come la Fiera campionaria dei comici. Se conquistavi una settimana lì ti vedevano in tanti e ti chiamavano ovunque. Iniziavo a lavorare molto anche dalle mie parti anche in piccoli teatri all’italiana come quello che è una vera bomboniera di San Giovanni in Marignano. Mi scrivevo i miei spettacoli, cominciavano a chiamarmi, grazie al passaparola».
Avrebbe potuto trasferirsi a Milano come tanti suoi colleghi, oppure a Roma, ma non ha mai lasciato Santarcangelo dove continua a abitare. Perché?
«Perché facevo questo mestiere, è un posto piacevole dove stare, proprio perché mi muovo tanto. Non so dire se sia stata una scelta ponderata. Come se ci fosse un elastico che mi riporta qui. A Roma, Milano, vado per lavorare. L’equilibrio vero lo trovo in autogrill»
Lei è nipote di Tonino Guerra. Che rapporto ha avuto con lui, le ha dato consigli?
«Ho ricordi bellissimi. In realtà ci siamo frequentati dopo che ho iniziato a fare questo mestiere. Qualcuno deve avergli detto che lo facevo. Fratello di mia nonna, io lo conoscevo come lo zio Tonino che scriveva i film e viveva a Roma. Ogni tanto andavo a trovarlo. Un poeta, un narratore, che c’entravo io?»
È stato un legame importante?
«Come si ha con le persone a cui ti lega l’affetto e un senso di appartenenza».
Negli anni in cui si è fatto conoscere in tv c’erano le scuole, i gruppi. Lei è sempre sembrato un cane sciolto. Sbaglio?
«Ho seguito la mia strada. Sì, sono stato abbastanza un cane sciolto. Non è che mi sia legato a qualche gruppo particolare, se mi piaceva una cosa, andavo».
I personaggi creati per «Mai dire gol» restano popolarissimi, tutti glieli chiedono ma lei non ama rievocarli.
«È che anche lì con la Gialappa’s, il mio desiderio era sempre cambiare. Anche nel caso dei più amati, io cercavo di mollarli per non sedermi, non annoiarmi. Ogni anno provavo a inventarmi altro. Per dire, sono stato felice dell’invito di Marco Mengoni al suo Lido di Sanremo per il podcast Caffè col limone. È un’idea nuova».
È sempre molto autocritico.
«Errori se ne fanno tantissimi, sono più forse le cose positive che devo cercare. Ma mi serve tutto, uso tutto, soprattutto gli sbagli».
In «Tre di troppo» mostra una gamma di genitori. Di sé stesso aveva detto a Chiara Maffioletti: «Sono un grande campione del passato di cambio pannolini. Ora i figli sono grandi, ho appeso il talco al chiodo. Ero anche un discreto cullatore e un grande inventore di storie della buonanotte. Mi interrogo su quante cose mi rinfacceranno da grandi». Si avvicina il momento.
«Adesso sono adolescenti. È necessario un aggiornamento costante con i figli. I grossi errori spero di evitarli. Mi dedico molto al ruolo, faticosissimo. È stata una scelta, abbiamo consapevolmente deciso di riprodurci. Il dispiacere è, semmai, averli avuti troppo tardi».
Cosa le dicono del suo lavoro?
«Io non ho mai spinto per fargli conoscere le mie cose. Credo si siano informati da soli, come per il sesso. Ho cercato di proteggerli, di normalizzare tutto della mia vita».
Cosa la fa ridere?
«Temo di non aver affinato il gusto. Le risate di pancia, fino alla lacrime, arrivano per cose basiche. O maestri come Peter Sellers. Posso rivederlo cento volte ne La pantera rosa, e mi diverto sempre. Le sospensioni. L’imbarazzo, cose che uno fa in buona fede. E mi fa ridere l’arroganza delle persone che però mi fa anche arrabbiare».
Quando ha capito che era arrivato, che ce l’aveva fatta?
«È stato credo a un Sanremo con Gialappa’s, passavo vestito da personaggio e mi riconoscevano. Ma non è che tutti mi hanno preso sul serio. Dopo la prima puntata di Mai dire gol, ho incontrato un vecchio amico. Ti ho visto in tv mi dice, fa veramente cagare, era molto meglio prima. C’era stato un rivoluzionamento del cast, dopo Aldo Giovanni e Giacomo, Albanese, era arrivato un gruppo quasi nuovo. Ho ostentato tranquillità e gli ho detto: grazie. Ma ci ero rimasto un po’ male».
Hobby?
«No francobolli o modellismo. Mi piace molto camminare, con o senza cane e andare in bicicletta. Cose un po’ da anziani. E poi disegnare mi rilassa parecchio».
Amici?
«Quelli storici, non sono tanti».
Prima l’ex ministro Toninelli, di recente il ponte sullo stretto rilanciato da Salvini. Non c’è pace per l’Ingegner Cane, non lo lasciano andare in pensione.
Poi andai alla Zanzara d’oro a Bologna, la selezione era selvaggia, mille persone al teatro Duse: mi presero
«L’ingegnere Cane, diciamolo, è colui che ha gettato il primo mattone. Il ponte sullo stretto va su tutto, come il tubino nero. Tutti calano l’asso. È un po’ un incantesimo che ti dà l’idea di non invecchiare mai. Ci tiene giovani».