la Repubblica, 10 febbraio 2023
Miliziani casa per casa La nuova strategia della repressione in Iran
“Ora devi essere contento se vieni arrestato dalla polizia segreta. Il problema è quando ti prendono le milizie private», mi scrive in una chat Bahar, un’attivista, durante uno dei rari momenti in cui non è in funzione il blocco della rete che il governo iraniano ha imposto negli ultimi quattro mesi. «Il regime è diventato ancora più crudele. Ora che i manifestanti sono diminuiti, le milizie vanno casa per casa e arrestano tutti coloro che sono scesi in strada. Sei fortunato se ti portano in carcere perché l’alternativa è sparire nel nulla».
E, da quando la rivoluzione delle donne è rallentata in queste ultime due settimane, sono tanti quelli “spariti nel nulla”. Adesso che i due epicentri della contestazione nella periferia del Paese, il Kurdistan e il Belucistan, sono più calmi e le donne e i giovani di Teheran non scendono in strada, il regime vuole assicurarsi in ogni modo che la rivoluzione non riparta. Nuove leggi, ancora più severe, per limitare la libertà d’espressione vengono approvate e applicate in fretta e furia; decine di migliaia di attivisti sono mandati in carcere anche solo per aver messo un “like” sui social, se poi chiedono perdono vengono rilasciati con la condizionale, anche se il regime la definisce, nella sua propaganda, un’amnistia. La polizia morale, con più violenza di prima, sparge il terrore nelle strade. Ma la rivoluzione delle donne è finita? Tutte le cause che hanno spintogli ultimi, i più poveri e perseguitati cittadini del Kurdistan e Belucistan a rivoltarsi contro il regime e, per la prima volta nella storia, a essere sostenuti da tutta la classe media del Paese, sempre più impoverita, restano più valide che mai.
L’economia in profonda crisi (il Rial iraniano ha perso il 30% del valore in 4 mesi), la corruzione dilagante, la disoccupazione e l’inflazione che hanno portato il livello della povertà a livelli mai raggiunti, il mancato rispetto di qualunque diritto individuale e sociale delle donne, della comunità di Lgbtq+, delle minoranze etniche e religiose, l’isolamento totale dal resto del mondo e l’impossibilità di una qualsiasi comunicazione tra i cittadini e lo Stato, tutto questo non ha lasciato alla popolazione altra scelta che provare a ribellarsi al sistema. Cosa ha rallentato la rivoluzione? Qualche settimana fa, due mosse dei monarchici iraniani all’estero hanno ottenuto quello che il regime non era riuscito a fare in tredici settimane: rallentare la rivoluzione. La prima mossa è stata lanciare, grazie alle loro ricchezze e agli importanti canali satellitari che possiedono, una massiccia campagna per presentare il principe Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo re, come il “rappresentante” della rivoluzione.
Questo tentativo ha evocato i fantasmi della rivoluzione del 1979, quando il populista Khomeini è riuscito a imporsi come il “rappresentante” della rivoluzione e a dirottare così a suo vantaggio la lunga marcia degli iraniani verso la democrazia. Anche il principe Reza Pahlavi, come Khomeini nel 1979, ha rifiutato di dialogare con i partiti e ha cercato di proporsi come leader di una rivoluzione moderna, la cui principale caratteristica era di non avere una guida precisa. È stata la magia di uno slogan semplice ma inclusivo che ha unito i pezzi di una società che da 4 decenni viene sistematicamente frantumata. Il principe Reza ha rifiutato anche di riconoscere i diritti fondamentali dei popoli non persiani e non sciiti della periferia all’indomani della sperata vittoria. Una scelta studiata per creare i presupposti a una possibile alleanza con i militari, il bazar (il potere economico tradizionale) e il potere religioso con la monarchia, con l’obiettivo di tornare a uno status simile a quello esistente prima del 1979.
Ma essere rappresentati da un principe 43 anni dopo la caduta della monarchia non è certo quello che i rivoluzionari vogliono. Il loro slogan “donna, vita, libertà” viene, attraverso il Kurdistan, dalla rivoluzione Apoista (Apo è il diminutivo di Abdullah Ocalan) del Rojava (il Kurdistan siriano), non ha niente a che vedere con i valori della destra monarchica e nazionalista. Quindi, per prendere le distanze dal partito monarchico e impedire al principe di “scippare” il movimento come fece Khomeini nel 1979, i rivoluzionari hanno scelto di rallentare. Preferendo lasciare campo al principe e ai nazionalisti per dimostrare il loro reale peso nel Paese. Le rivoluzioni vengono fatte dagli ultimi, i poveri che non hanno niente da perdere. I sostenitori del principe, che appartengono alla borghesia nostalgica della monarchia, oltre a sostenere la rivoluzione sui social non hanno la volontà di sfidare la forza militare del regime nelle strade. Il frutto di questa pausa di riflessione sarà un’identità più precisa della rivoluzione.
La seconda mossa dei monarchici è stata quella di appoggiare la proposta dell’Europarlamento che prevedeva di inserire i pasdaran tra le organizzazioni terroristiche. Era la vittoria di cui la loro propaganda aveva bisogno per lanciare il principe. Hanno preferito ignorare il fatto che quella proposta, più che in sostegno della rivoluzione, era una minaccia degli europei per cercare di allontanare il regime iraniano dalla Russia. L’entourage del principe, spostando il baricentro dall’interno del Paese all’esterno, ha fatto credere alla gente che la rivoluzione fosse quasi vinta e, da quel momento in poi, sarebbe bastato aspettare e vedere come la comunità internazionale avrebbe fatto cadere il regime.
Nel frattempo i monarchici cercano di allearsi con l’ala riformista del regime, offrendo il mantenimento dei loro privilegi e la salvezza dalla rivoluzione progressista delle periferie, alleate con donne e giovani della generazione Zeta. Due comunicati stampa usciti negli ultimi 3 giorni suggeriscono che questa alleanza stia prendendo forma. Il primo è stato diffuso dal leader del movimento Verde, Mirhussian Musavi (agli arresti domiciliari da 13 anni, e rispettato dalla prima generazione di khomeinisti). Il secondo è stato emesso congiuntamente da alcuni dirigenti dell’ex governo Khatami, insieme a ex leader dei Pasdaran e a esponenti della famiglia dell’ex presidente Rafsanjani. In entrambi i comunicati echeggia un avvicinamento di queste leadership alla linea di Reza Pahlavi.