La Stampa, 10 febbraio 2023
Breve storia delle foibe
Da quando la legge 92/2004 ha istituito il “Giorno del ricordo delle foibe e dell’esodo” (come viene abitualmente semplificato), le polemiche insorgono a ogni scadenza: ha senso ricordare una tragedia grave ma specifica e territorialmente circoscritta? Se fossimo un Paese normale, dove la Storia contemporanea avesse lo spazio che merita nei curricula scolastici e dove la memoria non avesse subito rimozioni e censure, probabilmente no: le vicende del confine nordorientale farebbero parte delle consapevolezze collettive e non avrebbero bisogno di essere ricordate attraverso le scadenze di una liturgia civile ormai sin troppo abbondante di date. Ma siamo in Italia, cioè in un Paese dove i conti con il passato sono stati fatti poco e male e dove la storia recente viene spesso ridotta a slogan identitari. E allora ben venga il Giorno del Ricordo: al netto degli schiamazzi opposti di negazionisti e oltranzisti, è l’occasione per parlarne con serietà, dalla commemorazione ufficiale del Presidente della Repubblica, a quella di tante amministrazioni locali piccole e grandi, alle attenzioni dei mass media, al lavoro delle scuole.
La legge istitutiva ha quasi vent’anni e credo che il bilancio sia decisamente positivo. Sino alla fine degli anni Novanta la vicenda delle foibe era esclusa dal confronto politico, negata con disprezzo a sinistra e agitata come una clava a destra, ma la stragrande maggioranza del Paese (spesso anche quelli che la celebravano o la negavano) ignorava che cosa fosse effettivamente accaduto sulla frontiera nordorientale, quale complessità avesse la vicenda, persino che cosa significasse il vocabolo foibe. Lo sdoganamento avvenne nel 1996 con un dibattito a Trieste tra Luciano Violante, presidente della Camera proveniente dalle file del Pci, e Gianfranco Fini, politicamente cresciuto nel Msi e segretario di Alleanza Nazionale. Le aperture di Violante furono oggetto di critiche ingenerose all’interno della sua area politica, con raccolte di firme e scomuniche. Il dibattito, coraggioso, ebbe però il merito di porre il problema in termini nuovi, a partire da una considerazione ovvia (e che all’epoca ovvia non era): i morti delle foibe non sono né di destra, né di sinistra, ma sono cittadini vittime della storia italiana di quegli anni e, come tali, vanno ricordati e rispettati. I tempi erano maturi per un’accelerazione: negli anni successivi ci furono altri confronti pubblici, convegni, pubblicazioni di saggi di ampia diffusione, e il Parlamento avviò il percorso che nel 2004 portò a votare la legge 92 con una maggioranza plebiscitaria (alla Camera 502 sì e 15 no). Il momento commemorativo è stato così garantito e parlare di foibe non è più un tabù.
Valutazioni diverse vanno però fatte rispetto al mondo della scuola: quanto si conosce e si parla dell’argomento nelle nostre aule? Poco: e non per responsabilità di docenti omissivi. Le ragioni riconducono a due ordini di problemi. Il primo, strutturale: lo spazio – orario dedicato alla contemporaneità è scarso e questo vale per la storia, la letteratura, l’arte, la filosofia, senza contare discipline del tutto assenti come cinematografia o musica. I danni della scuola delle tre “I” (inglese, impresa, informatica) sono evidenti: anziché aggiungere competenze e saperi nuovi, si sono parzialmente sostituiti quelli tradizionali, definendo un modello ibrido dove non si preparano né i cittadini né i tecnici. Non è questa la sede per parlarne, se non per osservare che un sistema scolastico dovrebbe fondarsi su una visione d’insieme dei percorsi formativi e non su mini- riforme improvvisate che di volta in volta rimodellano un segmento.
Il secondo problema è invece legato alla complessità del tema. Ciò che accade a Trieste, in Istria, a Fiume alla fine della Seconda guerra mondiale (prima gli infoibamenti di alcune migliaia di italiani da parte dei soldati jugoslavi del maresciallo Tito, poi l’esodo di quasi 300mila giuliano-dalmati) si può comprendere solo inserendolo nella storia di lungo periodo della frontiera adriatica. Con una duplice avvertenza: non si può mai capire ciò che accade oggi se non si conosce ciò che è accaduto ieri, perché la storia è una concatenazione di fatti intrecciati l’uno con l’altro; nel contempo, non si deve mai usare ciò che è accaduto ieri per “giustificare” ciò che accade oggi, perché la storia diventerebbe deterministica e tutti sarebbero sempre assolti.
Con questo spirito hanno lavorato alcuni studiosi riuniti in un tavolo di lavoro presso il Miur, elaborando le “Linee guida per la didattica della storia della frontiera adriatica”. Presentate in autunno dall’allora ministro Bianchi ma proposte alle scuole in questi mesi, le “Linee guida” non costituiscono, ovviamente, l’interpretazione storiografica ufficiale del tema, ma un supporto didattico e metodologico, con indicazioni generali su come affrontare la materia con sguardo ampio, nel pieno rispetto della libertà di opinione e di insegnamento. Il titolo stesso è indicativo: si parla infatti di “frontiera adriatica”, dove per “frontiera” si intende un’area nella quale convivono comunità di etnie diverse. Il documento aiuta i docenti ad andare al di là della legittima esecrazione delle atrocità e a cogliere la complessità culturale, storica, linguistica del territorio, a vedere le interferenze della “grande Storia” sulla microstoria locale, a comprendere come gruppi etnici che avevano convissuto pacificamente nei secoli in cui il territorio era parte della Repubblica di Venezia siano diventati antagonisti nella prima metà del Novecento, sino all’epilogo delle foibe e dell’esodo.
Da questo punto di vista, il messaggio educativo delle “Linee guida” coincide con lo spirito di riconciliazione ribadito più volte dal presidente Mattarella, simbolicamente rappresentato dalla stretta di mano del 13 luglio 2020 con il presidente sloveno Pahor prima davanti alla foiba di Basovizza, poi davanti alla lapide che ricorda quattro antifascisti sloveni fucilati dal regime nel 1938.
Non si tratta di costruire una improbabile “memoria condivisa": si tratta di giungere a “memorie riconosciute”, cioè a uno sguardo consapevole sul proprio passato nazionale, in cui ognuno sappia riconoscere i torti subiti e quelli inflitti e si attrezzi culturalmente e moralmente a non scivolare verso le stesse derive. Ed è questo il senso del 10 febbraio, Giorno del Ricordo. —