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 2023  febbraio 10 Venerdì calendario

Intervista a Silvia Dai Pra’

La scrittura si è rivelata un farmaco potente per Silvia Dai Pra’. «È stato un modo per spezzare una catena, la catena del trauma – racconta –. Il trauma trasmesso dalla nonna a mio padre e da mio padre a me. Ora resta il ricordo».
Silvia Dai Pra’ è l’autrice di Senza salutare nessuno, uscito nel 2019 per Laterza. È un libro «a metà tra un memoir e un reportage. Lo considero un ibrido in cui convivono una storia famigliare, un viaggio in Istria e un approfondimento storico. Al centro c’è la vicenda del bisnonno e del prozio, vittime della prima foiba, quella di Vines».
Quanto è stato difficile affrontare quello che è un «cold case», decenni dopo la tragedia?
«Mia nonna, Iole, del padre Romeo e dello zio Giacinto non ne parlava mai. Era una storia di cui si vociferava appena».
Nemmeno suo padre le ha raccontato qualcosa?
«No. In realtà tutta questa storia l’ha scoperta proprio grazie al mio libro».
E come ha reagito?
«Mi ha detto che “scrivo bene"».
Soltanto?
«Sì. Con mia nonna i rapporti sono sempre stati piuttosto tesi. Lui è cresciuto a Trento, in pieno ’68. Si sentiva un contestatore. Un’altra generazione rispetto a quella della madre».
E lei, Silvia, come è riuscita a spezzare quell’incantesimo maligno di silenzi?
«Ricordo la prima volta, nell’88, quando avevo 11 anni: andai con il papà e mia sorella a Santa Domenica di Albona, il paese della nonna. Adesso si chiama si chiama Nedescina ed è in Croazia. Mio padre voleva rivedere la casa di un tempo, ma la nonna si rifiutò di salutarci prima della vacanza e ci lasciò un biglietto che diceva: “Non salutate nessuno”. La frase ha ispirato il mio libro».
Poi cosa successe?
«Quando la nonna morì, nel 2003, scoprii che, a differenza delle persone della sua età, aveva lasciato pochissimo: qualche lettera e foto. C’era la foto del bisnonno, Romeo. Solo più tardi, nel 2017, mi sono decisa a tornare a Santa Domenica».
È allora che ha visto la foiba?
«Era estate e il bosco era fitto. Un cavo impediva il passaggio e si intravedeva lo sprofondo. Ma non c’era nulla che indicasse la foiba. Vidi solo una piccola croce, messa probabilmente dal parente di una vittima. Quello era e rimane per la Croazia un non-luogo».
Lì cosa accadde?
«Era l’ottobre del 1943 e un gruppo di partigiani di Tito trucidò 84 persone, tra cui mio bisnonno e il prozio. Quella era una zona molto calda, dove regnava un contrabbandiere, Mate Stemberga, detto “Caballero”, autore di tante vendette private, soprattutto contro gli italiani».
Qual era la «colpa» del bisnonno e del prozio?
«Furono uccisi perché erano considerati parte della borghesia benestante che attirava tanti odi».
Che cosa faceva suo bisnonno?
«Gestiva un negozio di alimentari e, quindi, non era certo ricco. E non mi risulta che avesse un qualche ruolo nelle gerarchie fasciste».
I cadaveri vennero rapidamente recuperati, giusto?
«Sì. E seppelliti. Sono stata a visitare anche le tombe: sulla lapide del bisnonno c’è il nome originale, Martincich, che poi è stato italianizzato in Martini. Poco dopo, era novembre, la bisnonna decise di scappare con i quattro figli e si rifugiò ad Agordo, nel Bellunese. Non tornò mai più a Santa Domenica e non ne parlò più».
Nelle sue indagini ha trovato dei testimoni?
«A Nedescina ci vivono in pochi. Qualche anziano, che parla ancora l’italiano, ma ho raccolto, perlopiù, racconti di racconti, piuttosto vaghi».
Vaghezza e autocensura?
«Direi, piuttosto, un’abitudine a non parlare e a non avere voglia di ricordare. È un’abitudine radicata».
Ha avuto la sensazione che qualcuno giustificasse l’eccidio?
«No, assolutamente. Il ricordo degli eccessi di Stemberga resta forte».
Nessun testimone oculare?
«Purtroppo, sono arrivata tardi, nel 2017. Quasi tutti erano scomparsi. Ho incontrato una signora molto anziana, che era bambina all’epoca. Vive nel mulino di mio bisnonno e mi ha confidato, in dialetto, che lui era “ricco”. L’hanno ucciso perché “volevano portargli via le cose"».
Che cosa ha scoperto del massacro?
«Che alcune delle vittime sono state prese e uccise subito, mentre altre erano già state rinchiuse in un carcere. A ottobre del ’43 i tedeschi stavano per arrivare nella zona e i partigiani vollero liberarsi rapidamente di tutti, prima di abbandonare il campo».
Ha scoperto le storie di altre vittime?
«Quella dell’ostetrica del paese. Aveva aiutato la moglie di un partigiano a partorire, ma il bambino nacque morto. E lei fu uccisa per vendetta».
Come avvennero le esecuzioni?
«Con il legaccio. Un fil di ferro legava le vittime due a due. Si sparava alla testa a una e, insieme, cadevano nella foiba. Una morte orrenda».
Ha trovato prove dei presunti «Tribunali del popolo»?
«Di questi Tribunali non ho trovato tracce. Forse è solo un termine altisonante o i documenti sono spariti».
Suo padre si è sempre detto comunista e anche lei si dichiara di sinistra: quanto ha scosso le sue certezze politiche questa tragedia?
«Oggi, a sinistra, di foibe si parla. E si sa che non ha senso raccontare che tutto ciò che è “rosso” è buono. Non siamo più immersi nel clima da Guerra Fredda. Il fatto che i partigiani slavi abbiano commesso degli eccidi non distrugge la Resistenza in sé. Sarebbe infantile pensare che ci siano stati personaggi solo positivi. Le foibe sono la dimostrazione di che cosa può scatenare la guerra: orrore che produce altro orrore».
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«Sarebbe bello ascoltare le parole di uno storico in prima serata». —