Il Messaggero, 10 febbraio 2023
Lazio, la terra dei ribaltoni
Poiché il Lazio è la più mobile delle Regioni italiane, il risultato del voto di domenica e lunedì resta una variabile a infinite incognite, sia riguardo al responso principale – chi sarà il prossimo governatore? – sia riguardo ai sotto-quesiti che più premono ai partiti: FdI sarà l’asso pigliatutto? Reggerà la Lega? Chi vincerà la gara tra Pd e grillini? E all’interno degli schieramenti, quale corrente batterà banco nella gara delle preferenze? A destra la vecchia guardia di Fabio Rampelli, col suo campione Fabrizio Ghera, si prenderà la rivincita? E a sinistra Daniele Leodori, il capolista del Pd a Roma nonché riferimento degli apparati, avrà i numeri per dire ciò che i suoi amici già sussurrano,«era meglio candidare me alla presidenza»?
Si capirà che in questa giungla di test politici, test di corrente, test personali, i due principali sfidanti, Francesco Rocca e Alessio D’Amato, abbiano fatto una campagna assai guardinga. Si sono mossi tutti e due in una matassa di interessi piena di spine. Rocca scelto dopo molte titubanze e ragionamenti al posto di Rampelli, l’ex mentore di Giorgia Meloni, già figura di riferimento per FdI in Regione, di recente avvilito dal commissariamento del suo fedelissimo coordinatore romano. D’Amato nel guado del congresso del Pd, dove sosterrà Stefano Bonaccini, mentre il suo ex capo Nicola Zingaretti sta con Elly Schlein e il corpaccione del partito è impegnato soprattutto nei bizantinismi delle primarie convocate con scarsissimo tempismo a cavallo del week-end elettorale.
Entrambi i front-runner hanno scelto una campagna morbida (qualcuno degli ultras se ne lamenta e dice: dovevano menare di più). Rocca ha evitato di rinfacciare all’avversario la recente condanna della Corte dei conti per un finanziamento regionale sospetto di 275mila euro (storia vecchia di quindici anni, lui ha già presentato appello). D’Amato ha sconfessato la dem Sara Battisti che se ne è uscita attribuendo a Rocca vicinanza ai clan di Ostia ed è stata poi indotta a pubbliche e assolute scuse. È stata guardinga, cauta, anche la performance del terzo incomodo, la Cinque Stelle Donatella Bianchi, la conduttrice tv che ha dato il suo volto alla scelta grillina di rifiutare il fronte comune col Pd in nome delle ambizioni della nuova leadership di Giuseppe Conte. Ed è sua la seconda percentuale che tutti guarderanno (dopo quella del vincitore), il numero che lascerà una scia e comporterà conseguenze nel dibattito a sinistra. Perché hai voglia a dire, come ha fatto Giuseppe Conte, «noi non siamo per la logica del voto utile» o intestarsi «l’asticella alta della Res Publica»: se perdi, e magari manchi pure il sorpasso sui dem, la colpa della sconfitta non ti sarà risparmiata.
Visto il clima nazionale, il fair play dei concorrenti non è cosa da poco ed è singolare notare che la corsa elettorale dei romani, i romani buzzurri, sbracati, i romani amanti dei colpi bassi e delle scoattate contro gli avversari, sia stata fino all’ultimo (salvo sorprese nei comizi di chiusura di oggi) assai più controllata di quella lombarda, dove i colpi di machete si sono susseguiti fino all’ultimo. Il fatto è che il Lazio è terra di sorprese e ribaltoni elettorali da sempre, e il voto è il risultato di misteriosi algoritmi popolari che nessun partito conosce fino in fondo.
Nessuno, nel Duemila, avrebbe scommesso un euro sulla vittoria di Francesco Storace, che si batteva contro un’autentica legione tebana ed era schiacciato dallo schema della “diga antifascista”. Durò cinque anni e poi, pure allora per motivi imperscrutabili, il Lazio si stufò, tornò a sinistra con Piero Marrazzo. Al giro successivo toccò a Emma Bonino per il centrosinistra e Renata Polverini per il centrodestra: un’altra partita apparentemente già scritta perché Polverini correva senza il sostegno delle liste del Pdl, bocciate dall’Ufficio elettorale per un ritardo nella presentazione. Poteva mai farcela? Beh, ce la fece. Altra sorpresa, altro choc. E in seguito un’ulteriore storia scritta da un lancio di dadi, perché dopo le dimissioni di Polverini Nicola Zingaretti arriva primo grazie a una candidatura di disturbo a destra (Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice) che sfila a Stefano Parisi un imprevisto 4 per cento.
Insomma, se altrove i Governatori si pietrificano, diventano inamovibili, replicano se stessi oltre ogni norma sul limite di mandati, nel Lazio è sempre stato un gran via vai e i ragionamenti su voto e dopo-voto sono piuttosto volatili, si aspetta il giudizio degli elettori con una sola certezza: saranno i risultati di questa tornata regionale a decidere sul futuro delle alleanze a sinistra e sulla prossima collocazione della Lega, che in caso di default potrebbe definitivamente abbandonare l’idea del partito nazionale e ritirarsi nella ridotta nordista.
Gli sfidanti principali, D’Amato e Rocca, conoscono bene la portata della competizione, che va ben oltre i loro nomi, e anche la sostanziale simmetria delle loro posizioni. Sono tutti e due outsider del gioco delle correnti e dei mammasantissima del territorio, sono stati entrambi scelti con una lotteria dell’ultimo minuto (D’Amato per l’imprevisto endorsement di Carlo Calenda, Rocca per la scelta fiduciaria di Giorgia Meloni) e dietro alle loro facce si combattono battaglie sulle quali hanno scarso controllo. Forse anche per questo, nell’ultima tranche della campagna, hanno scelto di giocare sul sicuro. In un’elezione dove si prevede un astensionismo record (addirittura intorno al 50 per cento) spingono i fan verso i seggi col tamburo della fedeltà alla tribù. Per Rocca c’è la faccia di “Giorgia” che giganteggia su tutti i manifesti elettorali, e vale mille parole. Per D’Amato la rivendicazione di una lontana giovinezza comunista e l’affettuoso ricordo del vecchio pugno chiuso, «che faccio ancora se c’è l’occasione». —