Avvenire, 10 febbraio 2023
Una nuova edizione de La città di Dio
La filosofia della storia nasce come noto con La città di Dio di sant’Agostino, scritta dopo il sacco di Roma da parte del visigoto Alarico nel 410, quando sembrava che il mondo dovesse crollare. Dello straordinario affresco del dottore della Chiesa, di cui quest’anno fra l’altro ricorrono i 1.300 anni dal trasferimento delle spoglie da Cagliari a Pavia, avvenuto appunto nel 723, è appena uscita una nuova edizione negli Oscar Classici Mondadori con versione latina a fronte per la cura di Domenico Marafioti. Il quale nell’introduzione ricorda come molti storici e filosofi abbiano preso le mosse da quest’opera per riconsiderare il problema della storia e lo statuto della filosofia della storia, a partire da Ernst Troeltsch «nel tentativo di superare l’impostazione hegeliana». Per ricordare come ad essa si riferì Giovanni XXIII, quando era delegato apostolico in Turchia, che nel 1942, in piena seconda guerra mondiale, scrisse: «Voglio rileggere il De civitate Dei di sant’Agostino, e farmi di quella dottrina succo e sangue per giudicare tutto solo con sapienza che illumina e conforta». E che dire di Paolo VI che nei suoi appunti dedicò circa 50 schede alla Città di Dio?
Anche i tentativi successivi di dare un senso alla storia sono stati formulati in periodi di crisi gravissime, come fece Hegel con la conquista napoleonica dell’Europa o Benjamin con quella nazista. Altri che si sono cimentati in questo discorso, che mira a cogliere il delinearsi progressivo di un disegno, più o meno provvidenziale, nelle pieghe delle vicende umane, sono stati il filosofo russo Nicolaj Berdjaev, l’antropologo francese René Grousset e lo storico inglese Arnold Toynbee, a cui possiamo aggiungere Henri-Irenée Marrou e Jacques Maritain, solo per citarne alcuni. In un dialogo del 1964 con Theodor W. Adorno, il pensatore tedesco che fu tra i fondatori della Scuola di Francoforte e che aveva teorizzato come non si potesse più fare poesia dopo Auschwitz, Ernst Bloch volle delineare una via d’uscita al vicolo cieco in cui gli sembrava fosse finita la storia dell’Europa, sia davanti che dietro il Muro di Berlino: «Est e Ovest – disse – sono d’accordo, sono sulla stessa penosa barca, concordi sul fatto che non deve esistere niente di utopico». In entrambi i blocchi egli vedeva l’affermarsi della disumanità prodotta dalla tecnocrazia. Ormai consapevole della fine ingloriosa delle speranze riposte nel comunismo, l’intellettuale di origine ebraica emigrato negli States, nel 1955 aveva dato alle stampe il libro Il principio speranza, ove già nella prefazione indicava la strada: «L’importante è imparare a sperare. (…) L’affetto dello sperare allarga gli uomini invece di restringerli». Tenendo vivo questo principio utopico che guarda positivamente al futuro da costruire, Bloch intravedeva l’esistenza di un «oscuro nucleo invisibile e incommensurabile», dentro ciascun uomo e nella società, in grado di aprire nuovi orizzonti. Il confronto con Adorno appare ora in un libro di Ernst Bloch, Speranza e utopia, che raccoglie una serie di conversazioni fra il 1964 e il 1975, volume curato da Rainer Traub e Harald Wieser la cui edizione italiana contiene anche una postfazione di Laura Boella. Nel loro colloquio Adorno, che aveva sempre criticato fortemente l’idea della “speranza come principio”, si mostra aperto alle riflessioni di Bloch che vede nella questione della morte, assolutizzata dalla filosofia contemporanea soprattutto attraverso Heidegger, l’affermarsi di un criterio antiutopico per eccellenza. Cui ha fatto fronte nella storia del pensiero – ribadisce Bloch – il cristianesimo, con la sconfitta della morte grazie alla resurrezione di Cristo: «La risposta della fede alla domanda che leggiamo nella Bibbia – chi mi salverà dalla morte, dalle ganasce della morte? – è trascendente, non compete certo a noi». All’approccio teologico in età moderna si è aggiunto quello medico-scientifico, che Bloch giudica insufficiente e parziale. Posizione condivisa da Adorno, che però continua a non guardare benevolmente al pensiero rivolto all’utopia: «Ogni tentativo anche solo di descrivere semplicemente l’utopia, di raffigurarla, è un modo di passar sopra all’antinomia della morte e, per così dire, di cancellarla. Questa è forse la ragione profonda, la ragione metafisica, del fatto che di utopia si può parlare solo in senso negativo».
Di Est e di Ovest più abbondantemente si parla nella conversazione del 1967 con il filosofo ungherese Lukács, amico della giovinezza da cui Bloch si era allontanato per le sue posizioni filosovietiche, e negli altri testi. Già nella prima, anch’essa del 1964 come quella con Adorno, vi sono giudizi precisi di presa di distanza non solo dall’Urss ma dal marxismo, trasformatosi «sino a rendersi irriconoscibile» nella sua incapacità di realizzare quel salto immaginato dal regno della necessità a quello della libertà, anzi compiendo il percorso inverso: «È evidente che coloro che oggi saltano il muro dall’Est a Berlino Ovest compiono in realtà un salto dal regno della necessità al regno della libertà. Ciò è avvenuto in un senso alquanto diverso da ciò che Marx aveva immaginato». Dalla lettura di queste interviste emergono due fattori attualissimi messi in luce da Bloch: la critica serrata alla società tecnocratica che rischia di minare le basi del tessuto democratico e il legame più volte ribadito fra utopia ed escatologia in vista del Novum, di un tempo in cui terra e cielo passeranno e sorgerà qualcosa di totalmente nuovo, come annunciato dai Vangeli, da san Paolo e dall’Apocalisse di Giovanni.