Avvenire, 10 febbraio 2023
L’Iran è ufficialmente in vendita. È al collasso economico
Mentre in Iran le manifestazioni di piazza cominciano a scemare per effetto della durissima repressione operata per quasi cinque mesi – intrisi di sangue e con arresti di massa – dal governo religioso, un altro spauracchio agita i vertici della Repubblica Islamica: il collasso economico. Una preoccupazione così profonda da aver portato ad autorizzare per la prima volta dal 1979 (l’anno della Rivoluzione khomeinista) la vendita sistematica di beni pubblici, con la nomina di sette “saggi” che, di fatto, supervisioneranno le cessioni, suscitando indignazione tra la gente e aperte polemiche perfino in Parlamento. L’Iran è ufficialmente in vendita, e questo rappresenta un segnale evidente di débâcle economica. C on l’inflazione da anni alle stelle per via delle sanzioni Usa prima, ed europee poi, e in ulteriore impennata – in un mese il valore rispetto al dollaro è passato da 35mila a 50mila Ryal –, con il commercio estero totalmente bloccato e le vendite di greggio ai minimi storici, con i conti pubblici squassati dall’appoggio militare alla Siria e alle milizie mediorientali, ma soprattutto con gli aiuti militari forniti alla Russia, e con le forze armate sempre in preallerta per possibili escalation, la crisi economica ha annichilito la società civile, creando un ampio malcontento. In questo scenario, la notizia data dai principali media iraniani e dalla tv nazionale “Seda va Sima” che pezzi dello Stato, di attività produttive ma soprattutto di terreni e risorse, verranno alienati, e per di più senza alcun controllo politico, ha provocato grandi polemiche, con interrogazioni parlamentari e accuse di incostituzionalità. L’Iran, infatti, è una Repubblica parlamentare, pur se retta da un governo islamico che decide su ogni aspetto sociale, culturale e religioso, ma che almeno per i bilanci, il lavoro e l’economia deve rendere conto democraticamente delle sue politiche alla gente. Un dualismo complesso ma pur sempre più democratico di una qualunque monarchia araba, che pochi conoscono, in Occidente, ma a cui gli iraniani tengono molto, tanto da difenderlo con le unghie e con i denti dallo strapotere dei mullah. Invece, in modo irrituale, i sette “saggi” nominati personalmente da Khamenei non saranno sottoposti ad alcuna verifica e non saranno imputabili per le loro eventuali scelte errate. In Persia c’è un diffuso patriottismo, e gli iraniani hanno già dovuto digerire la concessione del Mar Caspio per i tre quarti ai Paesi confinanti (prima la metà del mare, quella a Sud, era tutto Iran, con grandi rendite per la pesca dello storione) e poi quella del Golfo Persico in esclusiva ai cinesi, che con le loro enormi “portaerei ittiche”, secondo le ong ambientaliste sono capaci di azzerare un ecosistema in pochi anni. Tra la gente e i politici quindi si è scatenato un dibattito accesissimo (in Iran non puoi discutere di religione, ma di politica sì, ndr) in cui apertamente tutti si chiedono se saranno vendute realtà industriali poco produttive, fatte acquisire da privati con l’obiettivo di renderle efficienti, come ad esempio le ferrovie, o alcune grandi aziende metalmeccaniche, o se verranno invece cedute aree del territorio preziose per le risorse, o strategiche per stabilire porti ed avamposti commerciali per la Via della Seta o per altre iniziative globali. “E le risorse incamerate? Dove finiranno?”, si chiedono dai primi di febbraio i deputati nel Parlamento, il Majlis. Il sospetto infatti è che le entrate di tali espropri vengano indirizzati nelle casse dei Guardiani della Rivoluzione per alimentare ancora una volta la geopolitica iraniana che – stretta nella morsa Occidentale che tenta di alimentare da 40 anni un regime-change a Teheran – non può alleggerire la presenza militare ed economica negli stati amici come Siria, Iraq, Libano e Palestina.
Ora anche il governo dei “falchi” di Ebrahim Raisi non ha potuto non confermare che sul bilancio previsionale dello Stato, la “finanziaria” iraniana, c’è una discrepanza grossomodo del 50%.
Un ammanco abissale, insostenibile per qualunque amministrazione moderna. Ma l’Iran non è moderno: culturalmente, perché non ha voluto abdicare alle logiche occidentali e alla cultura consumistica e capitalistica (e questo lo rende un esempio per metà del mondo, e il demonio per l’altra metà), e amministrativamente proprio per l’ibrido repubblicano-islamico che di fatto crea un doppio binario, laico e religioso, con il secondo però che ha sempre diritto di precedenza sul primo. Non a caso alcune fondazioni vicine ai pasdaran, a realtà sciite come quelle di Mashad o Qom, insieme al fondo personale della Guida suprema, valgono tutti insieme un ampio pezzo del bilancio del Paese. «Il problema è che non se ne può più del malgoverno, della corruzione e di come vengono spesi i soldi – racconta un commerciante di Isfahan, la seconda città dell’Iran – soprattutto quello che non va giù alla gente sono le continue spese militari per sostenere lotte che una volta erano pure condivise, almeno da ampi strati della popolazione, ma prima della crisi economica. Gli europei devono capire che la stretta delle sanzioni ha colpito il popolo e non i poteri forti. Ha ridotto le famiglie, e non i ricchi o i pasdaran, sul lastrico». «La frutta e la verdura rimangono invendute nei mercati – racconta una donna in tv – e lo Stato aiuta solo le famiglie impegnate politicamente a favore, come i Basiji, con tessere sconto e sovvenzioni, e spende solo per mandare armi in Siria, o ad Hamas o in Iraq». Ad esempio il 9 febbraio il governo ha annunciato di aver inviato aiuti alla Turchia terremotata. Un fatto indubbiamente positivo, in linea con la comunità internazionale: peccato che l’operato del governo sia sotto accusa, nello stesso momento, per i ritardi nell’assistenza dei propri terremotati, nelle zone a Nord-Ovest, verso l’Azerbaijan e la Turchia (considerate guarda caso ostili ai mullah). «Ci sono i militari in piazza per il coprifuoco ma non aiutano la gente che sta ancora al freddo nella neve», racconta un testimone.
Forse quello che finora non sono riuscite a fare le giovani generazioni con la loro rivolta verso i rigidi costumi sociali, nonostante l’altissimo prezzo pagato, potrebbero invece ottenerlo la crisi economica e gli scandali politici. Due ambiti sul quale soffia l’Occidente, inasprendo sanzioni e sostenendo il blocco della vendita petrolifera. Ma se alla rivolta nelle piazze è mancata la saldatura degli studenti con le generazioni dei 50enni e 60enni, e con gli operai, per il regime change, al momento, sembra lontano un eventuale epilogo. La Russia non potrebbe permetterlo. Inoltre la geopolitica è crudele, e da tempo gli analisti più affidabili e che meglio conoscono il Paese stanno sottolineando come i dossier aperti intorno all’Iran – tutti importanti – come l’accordo sul Nucleare, l’appoggio militare alla Russia, il Gas (con le seconde riserve più grandi al mondo), potrebbero portare a un tradimento dei controrivoluzionari.
Nonostante i tanti proclami e il tanto sangue versato la realpolitik occidentale potrebbe portare a un accordo con i mullah, barattando con qualche grande vantaggio la sopravvivenza del governo islamico. Del cinismo occidentale, e ciò va detto, se ne aveva già avuta prova quando in Iran un esecutivo riformista, aperto all’Occidente e disponibile al dialogo e all’allentamento delle regole sociali c’era: era il governo di Hassan Rohani, che è stato fatto saltare dagli Usa uscendo dall’Accordo sul Nucleare. Gli iraniani, che in quel momento storico a cavallo del 2015 avevano riposto in esso molte speranze, hanno capito di essere stati traditi e ora si fidano molto poco, mentre non nascondono la delusione: «L’Europa – dice uno studente italiano – non penserà di sostenerci solo a Sanremo, vero?». Cruciali, quindi, probabilmente, saranno nei prossimi mesi la capacità iraniana di esportare gas e petrolio e le sorti del conflitto in Ucraina.