la Repubblica, 9 febbraio 2023
Il fascino immortale dei dinosauri canterini
Quanta Italia e quanta vita di tutti, quanto tempo dentro quelle tre voci e quelle mani che si stringono tra loro un po’ tremando e un po’ macchiate dagli anni, quanto ricordare e cantare a memoria e ripetere, ancora e ancora. Quanta fatica di famiglie in fondo simili, Morandi il figlio del ciabattino comunista, Ranieri il garzone di panettiere, Carrisi che rizolla la terra di suo padre Carmelo in quel lembo di Puglia. Quante salite, quanti sogni ingenui, quante mamme, quanto latte, quante rose rosse, quanta felicità.
E quanti mangiadischi Geloso o Lesa, quanti Cantagiri, quante Canzonissime, quanto lento scivolare fuori dalla memoria smemorata di un paese che corre, quanta pazienza per riprendersi il ritmo non avendo mai perduto la classe. E quanta bellezza adesso, con gli ottant’anni sulla soglia e il pubblico lì davanti, nel teatro Ariston, certo, ma soprattutto nelle luci dei salotti, delle cucine, dei tinelli, nei borghi più remoti e nelle città che scoppiano di nuovo di luce. Tre grandi artisti che ci cantano montagne di vita, i macigni come le schegge.
Un trionfo per niente patetico, quei tre si vedeva che si stavano divertendo come matti e che bello guardarli mentre si guardavano, due in silenzio mentre cantava il terzo e via andare, le labbra a sussurrare le canzoni degli altri perché sono di tutti e lo saranno sempre. Mezz’ora di assoluto spettacolo con dentro, liofilizzata, un’eternità. E sarà anche da boomer, pazienza, veder passare come nei filmati d’epoca tante storie di padri, il sentimento di comunità che ci tenne insieme tra le macerie, il desiderio condiviso in quella commedia all’italiana che siamo tutti. C’eravamo tanto amati, e tanto vi abbiamo amati, cari voi tre. La vostra voce, il nostro sillabare seguendovi. Vediamo dove si va.
C’era il rischio del copia e incolla dei tre tenori, la maniera è sempre in agguato, basta un attimo di distrazione e ti fai il verso anche perché in fondo di repliche viviamo, quasi sempre stonati. Ma loro no. Gianni con quello smoking elegantissimo, Massimo con la giacca di gomma, Al Bano con il classico borsalino bianco e il foulard, lui che parlava di ambiente e natura quando i genitori di Greta non erano manco nati. Tre vite parallele dentro un’apparizione, e neppure una nota fuori posto: e poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta lavita e ti piace lasciarti ascoltare. Ed è così che in mezz’ora si sono arrotolati decenni come un tappeto, precipitando indietro e anche un po’ avanti, e chissà cos’avranno pensato i ragazzi davanti alla tivù di quei bizzarri dinosauri canterini, asimmetrici e perfetti, un po’ di pancia, vabbé, e i solchi sul viso, e un po’ di tinta tra il mogano e l’acero canadese sui capelli che s’immaginano candidi là sotto, ma che smisurata bravura. I tre si sono fusi soltanto nell’ultimo brano, Il nostro concerto, per il resto è stata una staffetta perché ogni gioco di squadra resta pur sempre una prova individuale, da soli si corre, ma l’incanto di un’impeccabile intesa non ha conosciuto incertezze o cedimenti. Gianni e Al Bano sono addirittura più vecchi del Festival all’edizione numero 73, giusto un anno più dell’imberbe Massimo, eppure parevano al debutto, con la stessa luce negli occhi che hanno quelli che su quel palco salgono per la prima volta, però senza le ansie, senza più nulla da dover dimostrare, tutto è stato fatto ed è stato fatto bene.
Poteva ridursi a rimpianto, quest’incredibile esibizione inedita, solo un malinconico ricordare. E invece, ecco la sorpresa: quell’Italia dei tre c’è ancora e non è affatto decrepita. Il tocco di palla, se sei un campione non finisce mai. Il venditore di bevande nei cinema, lo scugnizzo che recita Eduardo con la faccia di Pasolini, il contadino: abbiamo creduto di cantare le loro canzoni ma non è così che funziona, non è vero. Sono le canzoni che cantano noi.