La Stampa, 9 febbraio 2023
Luigi Manconi parla con Maurizio Maggiani
LUIGI MANCONI. Si favoleggia di un tuo rocambolesco incidente in Germania.MAURIZIO MAGGIANI. Era l’inverno del 2017, cinquecentesimo anniversario della pubblicazione delle tesi di Martin Lutero, e io, con mia moglie Gloria, mi trovavo a Wittenberg per raggiungere in bicicletta la Cattedrale del castello sul cui portone Lutero affisse le tesi che avrebbero dato vita alla Riforma protestante. Era sera, c’era la nebbia e finii dritto, con tutta la bici, contro il portone della Cattedrale. È stato solo uno dei miei mille incidenti con i mezzi di locomozione.MM.Credo che la vista dipenda da come ti senti e da quello che vuoi vedere. Per esempio, ora ti vedo bene, perché mi sei simpatico e, in più, perché sei cieco. Ti assicuro che, quando era ancora viva, non riconoscevo mia madre a un metro di distanza.LM. Vuol dire che lei ti era antipatica?MM. Beh, sì, per farmi nascere ha avuto un travaglio di due giorni, puoi capire come fossero i rapporti.LM.Gliela facevi pagare ancora dopo cinquant’anni?MM. Ho fatto un lunghissimo trattamento con un mio compagno di scuola, diventato terapeuta, la cui madre una notte, a piedi scalzi, uscì di casa e si tolse la vita buttandosi a mare. Io, dopo una lunga autoanalisi, sono riuscito a fare una cosa che non avevo mai fatto: ho baciato mia madre. Ho combattuto per decenni contro la sua filosofia di vita, riassunta in una frase: Gnagnò, assà nar mondo perché ghè der posto, Bambino mio, siamo al mondo giusto perché c’è posto. Un viatico non troppo rassicurante. E sai come si chiamava? Al battesimo Maria, perché il prete si era rifiutato di battezzarla col nome che avrebbe voluto mio nonno, Adorna. Lo stesso della sua mula.LM. C’erano nella tua famiglia problemi di vista?MM. Sì, mio nonno Garibaldi aveva una patologia di cui non si conosceva la natura. E anche io sono nato con problemi simili. Se ne accorsero perché avevo un nistagmo evidente.LM. Un nistagmo?MM. È quel disturbo per cui i bulbi oculari sono sempre in movimento e non fissano mai l’immagine. Poi, con la crescita, il nistagmo si stabilizza, ma intanto ha distrutto la retina. All’epoca non c’erano strumenti per misurare questo deficit, così che, alla visita militare, risultai abile arruolato perché pensavano che fingessi.LM. Torniamo a tuo nonno.MM. Sono nato in una famiglia contadina molto larga: due nonni, due zie, i loro fidanzati, mio padre e mia madre, mia sorella, i miei cugini. Sono stato cresciuto di fatto da mia nonna e da mio nonno, perché mio padre lavorava in città e mia madre faceva la magliaia. In puro matriarcato, come fossi nato in Polinesia. Mia nonna si chiamava Genoveffa, ma siccome tutti chiamavano suo marito Garibaldi, lei – non scherzo – prese il nome di Anita. Tutto ebbe origine quando mio nonno, a tre anni, venne portato alla stazione di Sarzana ad accogliere uno zio appena tornato dall’ultima campagna garibaldina. Quando lo zio scese dal treno gli mise in testa il proprio cappello e tutti: ah, che bel garibaldino! Da allora e per sempre mio nonno Armando fu Garibaldi. Ricordo che leggeva tantissimo grazie a un paio di occhiali proprio come quelli di Pietro Nenni, a fondo di bottiglia.LM. Ma tu, dopo quel nistagmo infantile, hai ripreso una vista normale?MM. No. A sei anni, dopo che gli oculisti si erano arresi, i miei si risolsero a portarmi dallo psichiatra. La sua diagnosi fu: o ci è o ci fa. Per cui fui ricoverato nel reparto psichiatrico del Gaslini di Genova. Ma anche lì non vennero a capo di niente. A scuola stavo sempre al primo banco, avevo dieci in calligrafia, ma facevo fatica a leggere. Poi, cominciarono a chiamarmi quattrocchi e a bullizzarmi per via degli occhiali.LM. Giocavi a pallone?MM. Non vedevo nemmeno la palla. Io non sono miope, ho la retina sfasciata, grandi vuoti e grandi buchi. Non ho mai visto la traiettoria di un pallone perché gli oggetti che passano in quei vuoti e in quei buchi per me non esistono.LM. E il cielo, cosa riesci a scorgere?MM. La luna di notte la vedo benissimo, perché i bastoncelli degli occhi, deputati alla vista notturna, in qualche modo funzionano. Ma quando la luna splende insieme al sole non la vedo: non c’è abbastanza contrasto e per me il contrasto è tutto.LM. Qual è il nome della tua patologia?MM. Le elettroretinografie attuali confermano una distrofia dei coni. L’ultimo oculista serio che ho avuto è stato Zingirian, primario del San Martino di Genova. Mi disse: la brutta notizia è che non c’è niente da fare, quella buona è che morirai prima di diventare cieco. E penso che così sarà. Dopodiché, ho pessimi effetti secondari, per esempio una risposta al rosso, al blu o al bianco pari a zero. Quando andavo in motocicletta in autostrada, dove i cartelli sono bianco su blu o blu su bianco, mi dovevo fermare, scendere dalla moto, avvicinarmi e controllare.LM. Quando ti sei deciso a lasciare la motocicletta?MM. Dopo il grande incidente dell’85, che mi è costato tre anni di invalidità. La causa non fu la vista, ma il fatto che fossi felice. Era luglio, mi ero appena separato, ero andato a lavorare un paio d’ore, poi al mare e quindi in collina a mangiare la trippa. Si era fatto buio e, scendendo, sbagliai una curva e non frenai. In realtà ero convinto che non mi sarei fatto niente, perché, diciamo le cose come stanno, sono un po’ borderline. Mi sono rotto la tibia e il perone e ho subito quattro interventi chirurgici. Mi hanno rattoppato e rappezzato alla bell’e meglio grazie al lavoro e alla fantasia del dottor Ilizarov, un medico ucraino, che veniva una volta al mese a Bergamo e utilizzava una macchina complicatissima fatta di bulloni, cerchi di ferro, viti di acciaio.LM. Scusa, come si dice in questi casi: ma chi ti aveva dato la patente?MM. L’avevo estorta, letteralmente estorta, a un medico. E alle visite oculistiche baravo. Dopo quel terribile incidente, abbandonai la moto.LM. La bici, invece, non l’hai mai lasciata.MM. La uso ancora, anche se mi sono spiaccicato almeno quattro volte: contro un altro ciclista, un muro, una vigna e un albero. Seguo percorsi rigorosamente campestri che ormai conosco a memoria.LM. Come il cieco che si muove all’interno di un ambiente ben conosciuto.MM. Esatto. Ritrovi le cose perché hai memoria di dove le hai lasciate. Ho fatto degli esperimenti: se la tazza è qua la vedo, perché sono io ad averla messa qua. Se qualcuno la sposta, anche solo di pochi centimetri, non la vedo più. E mi infurio.LM. Per leggere, come fai?MM. Leggo da un maxi-ipad, un ipaddone da tredici pollici. A volte lo collego a un televisore enorme, praticamente in CinemaScope.LM. Leggi speditamente?MM. Lentamente. Non riesco a leggere più di dodici, quindici pagine di un libro, e solo quando sono in vena. Talvolta lo termino, più spesso no. Poi ci sono i libri noiosi: il 95 per cento di quelli che compro non sopravvivono al primo capitolo.LM. Quindi il tuo problema di vista svolge una virtuosa funzione selettiva.MM. Sì. Un libro magnifico come Stalingrado l’ho letto fino allo sfinimento, proprio che stavo male, dovevo lavarmi la faccia ogni tanto”.LM. E i giornali?MM. Non li leggo da trent’anni, li ascolto grazie alla rassegna stampa di Radio Tre. Ho l’abbonamento gratuito al Secolo XIX di Genova perché sono uno dei columnist. La mattina guardo chi è morto sulla pagina cittadina dei necrologi.LM. In questi decenni, come è cambiata la tua scrittura?MM. Sono nato come scrittore di e-book. Ho cominciato a scrivere narrativa solo quando ho comprato il computer, un Macintosh.LM. E prima?MM. Non scrivevo romanzi. Pensa che a scuola in italiano, quando andava bene, prendevo tra il 5 e 6 e il giudizio era sempre quello: troppe idee e confuse. L’unica cosa che ho scritto prima dei romanzi è stato il tema all’esame per il concorso da maestro. Una fatica da cani. Usavo una biro nera, dal momento che mi è impossibile scrivere con la stilografica, e solo così potevo cogliere il contrasto tra il nero della penna e il foglio bianco. La difficoltà stava nel mantenere la stessa scrittura, tendevo a ingrandirla sempre di più, a scrivere in stampatello, a uscire dalle righe, ad andare oltre i margini.LM. Quando avvenne la svolta?MM. Nei primissimi anni Ottanta ho comprato un Commodor, che aveva un programma bellissimo: con quattro parole chiave componevi un haiku. Mi piaceva da morire. Facevo tutti questi haiku e li regalavo alle donne per i loro compleanni. Poi, nel 1985, ho visto in una vetrina un Apple Macintosh. Io sono un tecnologico, adoro le macchine, mi piacciono gli attrezzi e gli strumenti. Vado pazzo per le navi da guerra perché sono i meccanismi più complessi che esistano al mondo: ho la storia della Marina Militare in 18 volumi. Quel Mac era il primo uscito in Italia: era come un foglio di carta, dove potevi scrivere con il carattere che volevi. E la tastiera suonava, non come quelle italiane, che per fare una “e” accentata dovevi schiacciare diciotto tasti: e io mi sentivo come Manzarek, il tastierista dei Doors. Ho fatto cinquantotto cambiali da 100 mila lire l’una e temo di non averle nemmeno pagate tutte. Scrivere lì era meraviglioso, così inviai una lettera al Secolo XIX per ricordare la storia della maschera del Teatro civico di La Spezia, Nino, un grande personaggio. Un omosessuale, zoppo, che, con tutto ciò che passava per quel cinema, aveva in pugno l’intera città. La lettera piacque e così iniziai la mia collaborazione al Secolo XIX.LM. Questo nostro ossessivo insistere sulle tecniche di scrittura dovrebbe essere affrontato insieme ai rispettivi psicoanalisti. Non essendo la cosa possibile, vorrei tornarci ancora. Una cosa a penna, poi, l’hai mai scritta?MM. Nell’87 indirizzai, proprio a penna, una lettera a una donna con la quale avevo un complicato rapporto. Lei voleva sesso, io anche un po’ di sentimento e cercavo di convincerla a darmi pure l’anima. Come si fa con le faccende delicate la feci leggere al mio migliore amico e per strane, tortuose vie, finì nelle mani di Franco Fortini. All’epoca, c’era tutto un intreccio di amicizie che legavano Milano e la riviera di Levante, tra Liguria e Toscana: Fortini, Vittorio Sereni e Giovanni Giudici.LM. Se non sbaglio, tutti culturalmente milanesi, comunisti o quasi, e interisti.MM. Sì, più o meno. Ci trovavamo ad Ameglia, dove la toponomastica riporta ancora la memoria di quegli anni: via Sereni, via Giudici… E ci andavano in vacanza anche Palmiro Togliatti, Tomás Maldonado e Giulio Einaudi. Poi c’era Edoardo Sanguineti, comunista anche lui. Ci volevamo bene, ma sua moglie gli proibiva di parlarmi perché aveva saputo che andavo al Maurizio Costanzo Show. Per tornare alla mia lettera a quella donna, un mattino di settembre, alle quattro, ricevetti una telefonata da Fortini: Maggiani, il suo è un gran bel racconto, lo mandi al concorso dell’Espresso. Così mi costrinsi a scriverlo al computer. Da allora non mi è stato possibile fare in altro modo.LM. Ma poi come andò quel concorso?MM. Sono arrivato primo per la giuria letteraria e ultimo per il pubblico, cioè per il popolo. Cominciarono a telefonarmi degli editori e a tutti rispondevo di non avere nulla nel cassetto. Ed era proprio così. Ma quando il direttore di Editori Riuniti mi chiese ancora una volta: hai qualcosa da pubblicare?, mi arresi. Se ero riuscito a vendere pompe idrauliche, a fare cinema industriale e mille altri lavori, dovevo essere in grado di scrivere un libro. Mi mandarono un contratto e un assegno di un milione di lire. Così scrissi Mauri Mauri. La quarta di copertina era firmata da Franco Fortini e le prime recensioni furono autorevolissime: Carlo Bo, Remo Ceserani, Geno Pampaloni. Ma il libro visse solo quindici giorni, perché gli Editori Riuniti proprio allora entrarono in crisi e collassarono.LM. Dopodiché, quanti altri computer hai acquistato e utilizzato?MM. Tredici, quattordici. E ciascuno contiene un disco rigido con l’intero romanzo. Alcuni li ho regalati, alcuni sono in giro per questa casa, altri sono rimasti a Genova.LM. Poi ci sono le foto.MM. Ho iniziato quando la fotografia industriale era ancora, quasi esclusivamente, in bianco e nero. Moreno Carbone, uno che ha fatto il fotografo per tutta la vita, si stupisce ancora del fatto che io veda cose che lui non vede. E io, d’altra parte, non vedo quello che vede lui. Anche se – lo ammetto – per accontentare la gente, a volte dico: sì sì che bello. Ma cosa vedo io? Lavoro sulle forme, non sui particolari, ma l’apparecchio fotografico è talmente raffinato che vede molte cose più di me. Ho appena realizzato un piccolo album che ritrae un mio giardino d’autunno: fotografo molti particolari perché mi avvicino e utilizzo una sorta di vista tattile, fatta di ciò che vedo ma anche di ciò che percepisco, avverto, sento, odoro. Questo mi rimane della vista. Poi ci sono anche cose antiche che restano: negli anni Ottanta girai per tanti cantieri edili, per conto della Fillea Cgil, e mi piace pensare che quel reportage fotografico abbia tuttora un suo significato.LM. Come definiresti quella tua vista tattile?MM. Io non ho mai visto come vedono quelli che ci vedono, quindi non so com’è il mondo per chi ha dieci decimi. Ma ciò che scorgo io – quei colori e quelle forme particolari – loro non lo colgono. Io non mi sento handicappato, se non quando vado a sbattere contro un muro o quando non trovo una cosa, ma penso che nella mia vita ho visto tantissimo. Certo, adesso vedo molto meno di quando avevo vent’anni: eppure, con tutto quello che ho visto ne ho per il resto della mia esistenza.(Ha collaborato Chiara Tamburello) —