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 2023  febbraio 09 Giovedì calendario

Intervista a Carlo Bonomi

Carlo Bonomi sbarca a Bruxelles senza attendersi molto di buono dal vertice Ue che oggi cerca di dare la scossa al rilancio economico continentale, con una probabile deroga sostanziale ai limiti per gli aiuti di Stato e una piccola iniezione di flessibilità nell’uso dei sostegni europei. «Dalle notizie che filtrano – concede il presidente di Confindustria – emerge che, di nuovo, la Germania imporrebbe la sua linea a tutti: sarebbe inaccettabile, un errore per l’Europa». Ha un programma fitto, un’agenda serrata di incontri con eurodeputati e commissari europei, fra cui Vestager, Gentiloni e Dombrovskis. «Serve il fondo sovrano europeo che abbiamo sostenuto dal principio – spiega -. È impensabile che la sfida della competitività lanciata da Usa e Cina sia affrontata singolarmente da ogni Stato, occorre una risposta continentale». Sarebbe «miope», assicura. In alternativa, l’Italia che vede «troppo presa da scadenze interne», non ha scelta: il risultato minimo per il governo Meloni deve essere la riprogrammazione dei fondi europei non spesi, a vantaggio di investimenti di transizione. Dunque, energia, ambiente e Tech.
Presidente, ce l’ha coi tedeschi?
«La deroga agli aiuti di Stato non è una buona soluzione nemmeno se tutti i Paesi avessero gli stessi margini di spesa. Se fossero confermate le indiscrezioni sul documento del Consiglio Ue, la Germania mostrerebbe di non credere nel mercato unico europeo. Guardando solo ai loro interessi».
E allora?
«Siamo la seconda manifattura continentale. Non avere il nuovo fondo comune Ue, che la Commissione prospettava tra qualche mese, significa rinunciare all’idea di un’industria europea»
Che s’aspetta dal governo?
«Pragmatismo. Se prevalesse la linea tedesca, dovrebbe impegnarsi a salvaguardare l’industria italiana. Serve un risultato immediato».
Quale?
«Come minimo ottenere dalla Ue la possibilità di riprogrammare i fondi europei a vantaggio dell’industria per agevolare le transizioni. È un tema di competitività che richiede ampie risorse. Se non si vuole una dote europea ad hoc, dobbiamo chiedere di impiegare per la transizione tutti gli altri fondi non utilizzati. Il 40% delle risorse disponibili per noi nella programmazione 2014-2020 non è stato speso: sono oltre 40 miliardi. Abbiamo fatto qualcosa di analogo nel 2020 con la pandemia. Facciamolo di nuovo. Non è l’obiettivo ottimale, ma almeno su questo va ottenuto il sostegno europeo».
Dice che la Germania fa i suoi interessi. Quali sono gli interessi italiani da opporre?
«I nostri interessi sono quelli europei. Siamo una industria di trasformazione. Se vari norme come la nuova stretta euro 7 sulle auto, provochi un disastro non solo per l’Italia. Dobbiamo definire gli interessi generali comuni e come perseguirli. La transizione è ineludibile. Ma ne vanno indicati anche i costi sociali, di cui nessuno parla. E che finiranno dritti sulle spalle dei lavoratori».
Ha detto che ci sono delle filiere che rischiano tutto. Quali?
«L’automotive ci colpisce di più, era l’industria metalmeccanica per tradizione. Però, la pressione è fortissima su ogni filiera. Non sono slegate. L’Agritech, le Lifesciences, l’Aerospazio, la Difesa di cui capiamo finalmente l’importanza e su cui anche i tedeschi si sono trovati spiazzati. La miopia sull’energia è costata cara. Bisogna essere solidali nelle scelte che tracciano il futuro comune. Quella lanciata da Usa e Cina è una sfida per Industria5.0 nei vent’anni a venire».
Invece?
«Le direttive pronte e in cantiere non garantiscono la neutralità tecnologica. Per l’auto si punta tutto sull’elettrico. C’è un commissario Ue che spinge su questo e ha un nome: Timmermans. Questa accelerazione ci consegna alla Cina. Chi c’è dietro?»
Chi c’è dietro?
«Non lo so. Me lo chiedo».
È preoccupato dal Pnrr che avanza a singhiozzo?
«Il Piano nasce come booster post pandemia. Il governo Draghi aveva poco tempo per cambiarlo, ha riscritto molto bene le prime 80 pagine ma non poteva farlo sui progetti delle 6 missioni, e molti non hanno le caratteristiche per essere realizzati entro il 2026. Serve, per quanto possibile, ripensare gli obiettivi. Ma c’è di più».
Cosa?
«L’elemento fondamentale sono le riforme. Quelle che l’Italia non ha mai fatto. Oggi i soldi ci sono e dobbiamo farle bene, se vogliamo essere moderni, efficienti e inclusivi per decenni».
Facciamo una lista?
«Lavoro, Welfare, Fisco, Politiche attive del lavoro, Giustizia. L’elenco è lungo. La pubblica amministrazione, soprattutto. Ora si parla di riforma fiscale, ma se è solo “tre aliquote per l’Irpef” non è riforma fiscale. Deve esser organica. Ragionata e non scritta in poche settimane. Abbiamo un orizzonte di stabilità politica e anche le risorse. Non ci sono scuse!».
Visco ha detto: “Non possiamo dire continuamente che serve un debito europeo se non si dimostra che questo debito europeo ha dei risultati tangibili”. Messaggio serio.
«Ha ragione. La nostra capacità di spendere i fondi europei non è esemplare. Ecco perché serve la riforma dell’amministrazione pubblica».
Perché?
«Non c’è meritocrazia nel servizio pubblico. E nemmeno produttività, sebbene tutti si lamentino degli stipendi. Nell’industria, dal 2000 al 2020, la produttività è aumentata del 20% e così i salari. Nei servizi non a mercato, ovvero nella pubblica amministrazione, è andata differentemente. Abbiamo un problema».
Difficile farsi aiutare se non ce lo meritiamo, però.
«La storia dimostra che stimolando gli investimenti si accelera la crescita. In un clima di incertezza internazionale gli investitori sono cauti. Non possiamo permettercelo. I’Industria 4.0 ad esempio s’è dimostrato invece fondamentale per stimolare gli investimenti e porre le basi del rimbalzo del Pil post pandemico»
È questa la soluzione?
«Si, ma deve essere strutturale. Il credito di imposta sugli impieghi al Sud per esempio – di cui stavano per dimenticarsi in legge di bilancio – non può essere per dodici mesi, nessuno investe con un orizzonte così breve. Bisogna pensare a tempi più lunghi, anni».
Anche Roma deve fare la sua parte.
«Il governo italiano deve lavorare con tutte le sue forze per costruire quella coalizione europea. E per farlo deve avere massima credibilità per le riforme fatte in Italia«.
A Davos abbiamo brillato per il “non esserci”.
«Mi è dispiaciuto non vedere la presenza in forze del nostro governo. I tedeschi erano in grande spolvero. C’erano tutti, da Scholz in giù. I francesi avevano sei ministri. Nei consessi internazionali ci devi essere. Con la forza che i numeri ci danno. Nel 2022 le stime prevedono il record dell’export italiano, sfioreremo i 600 miliardi. Nel momento in cui tutti dicono che il commercio internazionale si è contratto, è un segno di qualità. Come mai? Perché abbiamo un asset industriale di eccellenza».
Al World Economic Forum avevamo il ministro dell’istruzione. Come lo spiega?
«Nella storia dell’Italia, non abbiamo mai avuto una grande proiezione internazionale collettiva. Confindustria ha aperto nuove sedi all’estero, Kiev compresa. Sono a Bruxelles per la terza volta in pochi mesi. E a ogni semestre di presidenza di turno europea, andiamo a illustrare nelle diverse capitali di turno la nostra posizione. È necessario. La politica è sempre troppo presa da vicende interne e scadenze elettorali». —