Corriere della Sera, 9 febbraio 2023
Le bombe democratiche
L’Italia – dove è stata a lungo fortissima la presenza del fascismo e del comunismo, cioè delle due ideologie più aspramente divisive del Novecento – è forse il Paese dell’Europa occidentale nella cui discussione pubblica, politica e non, si fa il maggiore uso della storia. Uso e abuso, dal momento che troppo spesso, maneggiando la storia, si trascura di osservare uno dei suoi primi comandamenti: l’obbligo di contestualizzare. Cioè l’obbligo di non giudicare il passato con i criteri dell’oggi bensì di valutarlo «nel suo tempo», tenendo conto del contesto generale in cui esso si svolse, dei valori e della mentalità che allora avevano corso. Ciò che ovviamente vale anche per la storia del fascismo e delle sue imprese.
L’ennesima occasione di mettere a fuoco questo principio ci è fornito da un libro di Thomas Hippler, Il governo del cielo, appena uscito da Bollati Boringhieri.
Si tratta di una storia dei bombardamenti aerei, del loro impiego e dei loro risultati. Una storia che ebbe un punto di svolta decisiva allorché, constatata la scarsa efficacia che nel corso della Grande guerra avevano avuto le bombe sganciate dall’alto sugli schieramenti degli eserciti durante le operazioni militari, si fece strada l’idea fosse ben più utile bombardare le retrovie, e cioè le città, le industrie ma soprattutto la popolazione civile del Paese nemico. Era l’idea base del libro pionieristico del generale italiano Giulio Douhet, Il dominio dell’aria, pubblicato nel 1921. Ma tutto questo si sapeva da tempo. La novità del libro di Hippler sta nell’aver messo a fuoco il fatto che la svolta teorica anzidetta trovò la prima applicazione pratica – e in misura massiccia – non già nella Seconda guerra mondiale bensì negli anni Venti e nelle colonie. Innanzi tutto in quelle di Francia e Inghilterra, cioè delle due principali potenze democratiche europee.
È vero che già durante la guerra civile in Russia Churchill dichiara che le armi chimiche impiegate dal cielo sono un’ottima «medicina per i bolscevichi», i quali dal canto loro ne fanno un largo uso per dare una lezione ai contadini di Tambov che nel 1921 hanno osato ribellarsi al governo di Lenin. Ma è nelle colonie che il bombardamento di civili fa le sue maggiori prove, all’occorrenza con l’impiego di gas asfissianti. E sono le autorità inglesi a coniare l’espressione che ne designa l’impiego: police bombing, bombardamento in funzione di polizia.
L’approccio
Non bisogna giudicare
il passato con i criteri dell’oggi bensì valutarlo «nel suo tempo»
All’indomani della Grande guerra, tra Asia e Africa la Gran Bretagna ha un impero vastissimo. Per controllarne i territori e tenere a bada i tentativi di rivolta delle popolazioni locali, molto più efficace (e più economico) di una miriade di scarse guarnigioni locali è una potente flotta aerea. E così negli anni Venti del Novecento Bagdad diviene la sede di ben dieci squadriglie di bombardieri, dotati di gas tossici, incaricati del controllo dell’intero Medio Oriente. In teoria 48 ore prima del bombardamento è previsto il lancio di volantini per avvertite i villaggi insorti, ma in realtà si bombarda spesso senza preavviso e i villaggi sbagliati. «L’obiettivo», scrive Hippler, «è quello di spezzare la vita sociale ed economica delle popolazioni ribelli, di distruggere le case e i villaggi, di uccidere il bestiame e rovinare l’agricoltura, al fine di “prosciugare” l’ambiente nel quale gli insorti conducono la loro lotta».
Tutte le potenze coloniali fanno ricorso in questi anni al police bombing. Quando nel 1925 scoppia in Libano una ribellione drusa, la Francia, ad esempio, ricorre ai bombardieri colpendo senza pensarci due volte anche le zone abitate. Né si limita a qualche sperduto villaggio: lo stesso anno, infatti, viene colpita Damasco, dove il console britannico nella città – ci informa questo libro – scrive che si tratta di «una politica fondata sull’atrocità», che mira a terrorizzare la popolazione e a ridurre i ribelli alla «sottomissione assoluta». Nel Maghreb, invece, dove nella regione del Rif ha preso piede una vastissima rivolta che è riuscita a infliggere perdite pesantissime a francesi e spagnoli, i primi, di nuovo, bombardano le popolazioni civili con azioni «brutali che più di così non si può» commenta un osservatore inglese, e i secondi si affrettano a ordinare gas iprite alla Germania. Difficile immaginare che non l’abbiano usato.
Ci appaiono oggi nel loro cinismo memorabili, infine, le giustificazioni che le autorità militari forniscono a questo genere di azioni. Il capo di Stato maggiore dell’aeronautica inglese, Trenchard, spiega alla Camera dei Comuni che gli arabi sono talmente diversi dagli europei che, testuale, «essi non hanno obiezioni a farsi ammazzare» in combattimento, mentre un vecchio ufficiale coloniale che nella guerra arabo-israeliana del 1948 guiderà la legione araba, John Glubb (Glubb pascià), afferma che «gli arabi amano la guerra proprio perché essa implica un confronto con la morte e perché, a differenza degli europei ormai effeminati, non tracciano nemmeno quella debole distinzione tra combattenti e non combattenti».
È questo il contesto in cui nel 1935-36 l’Italia fascista conduce la guerra contro l’Abissinia facendo anch’essa, come si sa, largo uso del bombardamento aereo e pure dell’iprite; ed è pure il contesto in cui, dopo la vittoria, a un attentato contro il maresciallo Graziani sempre gli italiani fanno seguire una rappresaglia con almeno un paio di migliaia di morti: un insieme di eventi che ormai siamo soliti rubricare tra le azioni criminali del fascismo. Ma dopo aver letto il libro di Hippler forse l’imputazione deve cambiare destinatario: sono stati i crimini non del fascismo ma in generale del colonialismo. Perché se è vero, ad esempio, che la rappresaglia ordinata da Graziani dopo l’attentato da lui subìto ad Addis Abeba nel 1937 fu orribile, ancora più orribile fu certamente, ad esempio, la rappresaglia che a suo tempo l’esercito inglese aveva compiuto in India in risposta alla rivolta dei Sepoy, così come se è vero che la «pacificazione» della Libia attuata negli anni Venti dallo stesso Graziani significò la morte di un gran numero di persone, di sicuro non fu da meno (anzi!) il programma di deportazione e rappresaglia della popolazione algerina attuato dai francesi tre decenni più tardi. Il che si dice non già per diminuire le colpe del Duce e dei suoi, ma unicamente per evitare il falso giudizio di additare come tali, e quindi eccezionali, solo i loro misfatti. Si chiama contestualizzazione, appunto.