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 2023  febbraio 09 Giovedì calendario

Intervista a Enrico Beruschi

«Prima mi hanno tirato su con la carrucola vestito da amorino barbuto con arco e frecce – imbracato con dei mutandoni elastici legati ai tiranti di metallo – e poi, fingendo un problema tecnico, hanno mandato in pausa l’attrezzista e sono spariti, lasciandomi lì appeso a dondolare dal soffitto per venti minuti, non le dico che male alle parti basse...».
Chi è stato?
«Gianfranco D’Angelo ed Ezio Greggio, chi sennò? Poi sono tornati fingendosi costernati: “Scusaci tanto, ci eravamo distratti...”», ricorda ancora (virtualmente) indolenzito il tartassato “ragionier” Enrico Beruschi, quello che «porca l’oca sempre a me mi toca», con quella faccia un po’ così («Non lo facevo apposta, la bocca è proprio storta»), vittima prediletta degli scherzi infami della scatenata banda di Drive In, Italia 1, programma simbolo di quegli esagerati, gaudenti e sempre più rimpianti anni Ottanta. «Che fine ho fatto? Beh, non sono mica morto, sa?». E in effetti – dopo tanto teatro, zero o quasi tv dal 1992 («Non mi chiamano, che posso farci?») e qualche regia lirica («Ho in programma un Don Giovanni di Mozart») – la Antonio Ricci & Co. a dicembre lo ha richiamato in servizio per tre sere, al posto di un acciaccato Enzo Iacchetti, al bancone di Striscia la Notizia «accanto all’Ezio», debutto assoluto a 81 anni, una botta di nostalgia. «Perché non l’ho mai fatto prima? Ricci dice che sono troppo lento per il tiggì. Ma dopo dieci minuti sembrava fossi lì da sempre, sono una vecchia pantegana».

Alle medie era in classe con Renato Pozzetto.
«Bocciato in prima, Renato era piuttosto esuberante, per farlo stare buono lo misero al primo banco accanto a me che avevo dieci in condotta. Non funzionò mica tanto».
All’istituto tecnico invece trovò Cochi Ponzoni.
«Cochi il bello, l’unico che parlava bene inglese perché i genitori d’estate lo mandavano in vacanza a Londra. Durante le lezioni, in fondo all’aula, con un lato del banco sollevato in aria, fingevamo di essere su un caccia americano mitragliato dai giapponesi. Colpito a morte dal nemico, Cochi si accasciava sulla sedia gridando “Viva la mer...!”. Un giorno però il banco crollò a terra. Sospesi».
Si diplomò ragioniere per la gioia di mamma Clara.
«Ricevetti 34 offerte di lavoro. Scelsi il Credito italiano perché la Banca Commerciale voleva assumermi dal 15 di agosto, eh no. Ci rimasi due anni, poi partii militare, ricominciai vendendo enciclopedie, prima di sistemarmi al biscottificio Galbusera, giovane e severissimo capufficio. Qualche anno fa ho rincontrato un mio vecchio venditore: “Ci terrorizzavi tutti”».
Compresa la sua futura moglie Adelaide.
«La segretaria più carina, io il capo più brutto. Quando mi presentai pur di non darmi la mano finse di starnutire. Un giorno che l’avevo rimproverata si mise a piangere, mi fece tenerezza, così mi offrii di accompagnarla alla stazione. La Cinquecento era piccola, cambiando marcia le sfiorai la mano e... e siamo sposati da 48 anni».
Il debutto al Derby.
«Ci andavo spesso, ma restavo in piedi per non pagare la consumazione. Il patron Walter Valdi mi arruolò così: “Ti, faccia di m..., dicono che sai far ridere, cominci domani”. Mi presentai con tre barzellette, una era quella dei due contrabbandieri travestiti da mucca».
La paga era di...?
«Di 4 mila lire al giorno, tipo dieci euro. Otto ore in ufficio, due di sonno, poi la sera sul palco, il mattino dopo di nuovo in Galbusera. Teo Teocoli mi chiamava Biscottino. Due anni dopo mi licenziai».
Nel 1977 sbucò a «Non Stop» con I Gatti di Vicolo Miracoli, La Smorfia (Massimo Troisi, Enzo Decaro, Lello Arena), poi Carlo Verdone, Zuzzurro e Gaspare.
«Eravamo tutti comici sconosciuti, io il più vecchio, non avevamo una lira, la sera mangiavamo in una trattoria di Torino dove si spendeva poco, vicino agli studi Rai. Massimo, Enzo e Lello parlavano solo napoletano. “Se riuscite a dire almeno una frase in italiano, con le e belle aperte, giuro che pago io il conto”, gli proponevo, niente da fare».
A «Luna Park», 1979, c’era Beppe Grillo.
«Alloggiavamo nello stesso residence, si usciva a cena e pagavamo sempre noi, anche per venti. Così una sera gli dissi: “D’ora in poi mangiamo a casa”. Io facevo la spesa, Beppe cucinava porcherie».
Al Festival di Sanremo con: «Sarà un fiore/Peccato che non sa telefonare/Che tante cose ti vorrebbe dire/Marisa dai non chiedermi cos’è».
«Ero fuori posto, non sapevo niente di musica, non conoscevo nessuno, alle prove facevo passare tutti avanti. La sera della finale Mike Bongiorno dietro le quinte mi avvisò: “Resta vestito che sei terzo”. Così rimasi in smoking bianco, poi arrivai quinto».
Nel 1982, concerto di Liza Minnelli a Milano, l’incontro con Silvio Berlusconi.
«Mi chiamò: “Uè, Enrico! Adesso ho una tv, fatti vivo”. Con Ricci e Nicotra ci siamo chiusi in un ufficio a Milano 2, con le poltroncine incellofanate. Ed è nato Drive In».
I funzionari non volevano mandarlo in onda.
«Portammo la pizza con il numero zero a Berlusconi, in via Rovani. “Lasciatela lì, intanto andate a pranzo”. Quando siamo tornati l’aveva già guardata con segretarie, guardie giurate, addetti alle pulizie. Era piaciuto, via libera».
D’Angelo il titolare, Greggio l’aiutante, lei lo stralunato cliente che corteggiava la formosa cassiera Carmen Russo: «Signorina, mi piacciono le sue idee». E intorno le ragazze Fast-Food.
«Che volevano denunciarmi: sono stato l’unico a non averle mai tampinate».
Impersonava anche Beruscao, («È una brutta fazenda») il penultimo mandingo, con la faccia tinta di nero e l’orologio magico.
«Orologiao-ao-ao. Sta nel comò, un pataccone da gilet».
Disavventure di scena?
«Ero vestito da sposa, dovevano tirarmi addosso non riso ma ravioli, duri come sassi, uno mi centrò un occhio. “Ti portiamo al pronto soccorso”. “In abito bianco?”. Una volta Margherita Fumero doveva picchiarmi con un ananas di gomma. Qualcuno lo sostituì con una noce di cocco, lei non se ne accorse. Bam. Randellata. Fortuna che avevo ancora un po’ di capelli».