La Stampa, 9 febbraio 2023
Celan, il grande traduttore
Mentre Osip Mandel’tam sta morendo, nel dicembre del 1938, in un gulag, presso Vladivostok, Paul Celan, appena diciottenne, visita per la prima volta Parigi. Nella capitale francese si trasferirà, per sempre, dieci anni dopo; lì, nell’aprile del 1970, dal ponte Mirabeau, decide di uccidersi: il cadavere vaga per giorni nella Senna prima che un pescatore lo scopra, arrestato da una chiusa. Nelle vite dei poeti tutto ha la perplessa dignità di un simbolo. Traduttore eccezionale – tra gli altri, ha voltato in tedesco Rimbaud e Valéry, Simenon, Shakespeare e Ungaretti – Paul Celan scopre una terribile sintonia con l’opera di Mandel’tam. Traducendolo, ne interpreta l’esistenza: nato trent’anni prima di lui, come lui Mandel’tam è di origine ebraica, ha subito la barbarie di un regime sanguinario – incarnato da Stalin nel caso di Mandel’tam, da Hitler per Celan, impotente di fronte alla morte dei genitori, arrestati dai nazisti -, è un poeta apolide al proprio tempo. Quando, nel 1959, l’editore Fisher pubblica le poesie di Osip Mandel’tam tradotte da Paul Celan (ora in italiano grazie a Dario Borso, per Crocetti, pagg. 200, euro 18), è chiaro a tutti che si tratta di un libro di Celan, di una traduzione-reinvenzione. Nadeda Mandel’tam, vedova e custode dell’opera del poeta russo, ne fu estasiata. Alcuni versi sono memorabili: «A qual pro dunque respirare?/ Lì, su dure pietre/ si torce il boa malato, scatta,/ si erge, stringe cintole attorno a sé, una,/ ancora una. Più nessuna. Il boa cade» (le versioni dal russo, in appendice al libro, giustificano l’autorialità della traduzione di Celan). Parlando di Mandel’tam alla radio, nel marzo del 1960, Celan parlava di sé: «Mandel’tam è ipersensibile, impulsivo, imprevedibile...». Il 5 gennaio del 1966 così Emil Cioran scrive di Celan: «Era dotato di grande fascino, quell’uomo impossibile, con cui i rapporti erano difficili e complicati, ma a cui si perdonava tutto, una volta dimenticati i suoi risentimenti ingiusti, insensati, verso tutti». Sono rarissimi i casi di coincidenza fra tradotto e traduttore, in cui la traduzione diventa opera pura, a parte: il Sofocle di Hölderlin e l’Edgar Allan Poe di Baudelaire, ad esempio; in Italia, il William Blake secondo Ungaretti, Sylvia Plath interpretata da Amelia Rosselli, René Char rivissuto – e forse invidiato – da Vittorio Sereni, San Paolo contorto nella lingua di Giovanni Testori. Un poeta ha bisogno di uno specchio per perfezionare la propria lingua, di un altro se stesso da reinventare – da uccidere. Quando, nel 1963, Celan pubblica una delle sue raccolte più importanti, Die Niemandsrose, non può che dedicarla «alla memoria di Osip Mandel’tam». In una poesia, Celan accenna a Petrarca: «Con labbra invase da giunco/ In orecchi da tundra, Petrarca». Il poeta accoglie la pia leggenda secondo la quale Mandel’tam, in Siberia, addolciva lo strazio dei compagni di prigionia recitando le sue traduzioni da Petrarca. Ancora una volta, tradotti, traduzioni. A volte gli spettri dei poeti salvano, hanno la statura di un angelo – altre volte si voltano in vampiri.