il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2023
Il ritorno di Salman Rushdie
La città della vittoria, in contemporanea con gli Usa, approda da oggi in libreria per Mondadori. Un nuovo romanzo già consegnato all’editore quando il 12 agosto scorso Salman Rushdie veniva gravemente ferito a coltellate a New York.
L’autore 75enne – convalescente dopo avere perso la vista da un occhio e l’uso di una mano – è ripiombato nella clandestinità e non farà nessun giro di presentazioni. Convinto che il compito di un intellettuale sia “nominare l’innominabile” è dal 1989 che deve scontare l’odio degli integralisti islamici dopo la fatwa di Khomeini in seguito al suo I versi satanici (1988), accusato di blasfemia contro l’Islam.
La città della vittoria, eco di una delle possibili Città invisibili di Italo Calvino, conferma la vocazione di Rushdie al realismo magico. Basti pensare, tra le sue opere, a quella dichiarazione di poetica che è Due anni otto mesi e ventotto notti: esattamente Mille e una notte. Abitante di Patrie immaginarie, per richiamare un suo titolo, lo scrittore anglo-indiano ci offre anche in questo suo nuovo romanzo una storiografia fantastica: molti degli eventi e dei personaggi sono sì reali ma i retroscena sono l’esito della sua vulcanica immaginazione. Sulla scorta di una discreta bibliografia, l’autore ripercorre le sorti di Vijayanagara, impero dell’India meridionale sull’altopiano del Deccan. Baluardo contro l’avanzata musulmana, fu fondato nel 1336 e si protrasse fino alla grande sconfitta militare subita nel 1565 dai Sultanati del Deccan.
La città della vittoria si snoda in una trama di intrighi, fazioni rivali, colpi di palazzo degni di Game of Thrones. Il pretesto è offerto da un narratore anonimo che, quattro secoli e mezzo dopo, riscrive in una traduzione ridotta l’epica Jayaparajaya, che in sanscrito significa Vittoria e sconfitta. Un poema in versi sigillato a suo tempo in un vaso di terracotta e ora disseppellito. L’autrice è Pampa Kampana, incarnazione della dea dell’induismo Parvati, moglie di Shiva, che documenta fondazione e distruzione dell’impero di Bisnaga, nome di comodo mutuato dalla pronuncia difettosa di un forestiero portoghese di Vij-aya, vittoria, e nagar, città. La vita di Pampa Kampana, 247 anni, che coincide con la storia dell’impero, si suddivide nelle quattro fasi in cui è articolato il romanzo stesso: nascita, esilio, gloria, caduta.
Tutto ha inizio in un principato del XIV secolo dove le vedove di uomini morti in battaglia si immolano e si suicidano in massa tra le fiamme. A unirsi al rogo anche la madre di Pampa Kampana, che assiste alla scena all’età di 9 anni. Il trauma è mitigato dal potere sovrannaturale di ospitare nella propria bocca la voce di una divinità, che le affida una missione: “Tu lotterai per assicurarti che nessun’altra donna sia mai più bruciata in questo modo, e che gli uomini inizino a considerare le donne con occhi nuovi, e vivrai abbastanza a lungo da assistere sia al tuo successo sia al tuo fallimento”. Diciottenne, Pampa invita due fratelli mandriani a seminare sul luogo del sacrificio della madre i semi in loro dotazione. Hukka e Bukka Sangam, sovrani designati, si ritrovano davanti al prodigio di una città che sorge dal terreno con edifici e templi e che poi genera la vita: “Centinaia, anzi migliaia, di uomini e donne nacquero già compiuti dalla terra bruna, scrollandosi di dosso la polvere e accalcandosi per le strade”. È la memoria e la fantasia di Pampa a infondere un passato a questi esseri umani germogliati da un seme: “Questo era il paradosso delle storie sussurrate: non erano altro che finzioni, ma creavano la verità”. Pampa, sposa in successione dei due re fratelli, è madre di tre figlie dal primo e di tre maschi dal secondo. La morte del primo re “è la nascita di una dinastia, il grande fiume della storia di Bisnaga confluisce nell’oceano delle storie che è la storia del mondo”.
È un regno a cui Pampa imprime i tratti di un’utopia femminista: “A Bisnaga le donne non sono trattate come inferiori. Non siamo velate né nascoste”. I Sangam sono solo la prima delle tre case regnanti dell’impero. La genealogia subisce rivolgimenti, scandita da lotte di potere e da una successione di eredi mancati o deceduti. Pampa è costretta per decenni a un esilio e solo in virtù di un sodalizio con una pronipote potrà tornare nella sua antica città e concedersi un nuovo periodo di reggenza. Il crepuscolo della vita di Pampa Kampana è però funestato dalla decisione dell’ultimo regnante di accecarla con ferri roventi. Si rifugia nella scrittura: “Adesso tutto quello che voglio sta nelle mie parole, e le parole sono tutto quello di cui ho bisogno”.
La città della vittoria offre incredibili parallelismi tra autore e protagonista del romanzo. Entrambi costruttori di mondi, entrambi impegnati a eludere l’assassinio politico, entrambi con una vista compromessa. La conclusione del poema ha una risonanza allegorica di grande potenza, specchio dello stesso Rushdie, perché anche lui, al pari della poetessa, può ben dire che “le parole sono le uniche vincitrici”.