Corriere della Sera, 8 febbraio 2023
Con la Croazia dentro Schengen l’Istria supera l’epoca delle frontiere
«Documenti!» «Mio marito ha un infarto: sta morendo!». «Documenti!» «Muore!» «Documenti!». Sono passati tre decenni dalla notte in cui la moglie cercò disperatamente di portare Duilio Visentin all’ospedale di Isola d’Istria. L’ospedale di sempre, per gli abitanti della zona di Portule, tra Capodistria e Fiume. Niente da fare: la guardia al nuovo confine sul Dragogna, il fiume che per la prima volta spaccava la penisola in due, di qua gli sloveni, di là i croati, non volle sentir ragione. E basta quel ricordo, per gli italiani che vissero quel trauma del ‘91, a capire quanto sia importante oggi il via libera dell’Europa alla Croazia che ha spazzato via, finalmente, tutte le barriere.
Erano un tormento, fino a un mese e mezzo fa. Dicono tutto i versi del poeta Giacomo Scotti, uno scugnizzo napoletano oggi ottantacinquenne che prima della guerra era finito a Pola dove aveva un fratello nella Marina militare e al momento dell’esodo forzato degli italiani dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia cui è dedicato dopodomani il Giorno del ricordo, aveva deciso di restare nella patria d’adozione. Nonostante la ferocia del conflitto sul confine italo-jugoslavo, il comunismo titino, l’orrore delle foibe, le purghe successive. Un errore capito troppo tardi. Lì, alla frontiera: «Ecco, ancora una sosta / (intermezzo del vivere) / davanti a una sbarra di confine: / le solite domande prescritte, / le pause di silenzio, / i luoghi di ghiaccio, / le mie sconfitte».
Oggi no, non è più così. E può capirlo fino in fondo solo chi ha provato sulla pelle il tormento di tante chiusure, come Maurizio Tremul che da anni è presidente dell’Unione degli italiani ma ricorda come ieri mattina la guardia di frontiera che lo bloccò coi libri dell’Università triestina alla quale era iscritto: «Si incaponì a sfogliare e controllare in cagnesco uno a uno senza capirci niente finché si illuminò per un testo: “La letteratura e Marx”». Gli bastò la parola Marx.
Deve provarlo subito, il nuovo viaggio dalla città di San Marco a quella di San Vito, chi ha nel cuore la storia di Venezia, dei boschi istriani protetti dalla Serenissima per il legno dell’Arsenale e delle pietre d’Istria portate da Rovigno e Brioni per rafforzare le rive. Un itinerario dalla laguna lungo il Golfo di Venezia fino a Duino e poi su per il Carso fino a Basovizza per poi calare in picchiata alle spalle di Trieste per entrare in Slovenia e scendere tra monti e colline verso Abbazia e Fiume passando paesi che non hanno più i nomi italiani ma i profili sì e avanti fino a Mattuglie dove, di colpo, ti viene da parafrasare il grande Ivano Fossati: «In questi posti davanti al mare / Con questi cieli sopra il mare / Fin da Bisterza si pensa al mare / Fin da Ruppa si sente il mare / Dietro una curva improvvisamente / Il mare».
Il mare del golfo del Quarnero. Bellissimo e struggente anche d’inverno. Con lo sfondo di Veglia, Cherso, Lussino. Ideale punto d’arrivo per un tragitto un tempo impossibile. «Quando mio papà mi portò la prima volta nel ’63 a Trieste avevo solo dieci anni», racconta col groppo in gola Mario Simonovich, «Fu costretto a farmi il passaporto e il visto. Guardavamo tutti a Giovanni XXIII. E qui era giorno lavorativo persino il Natale». Ti volti indietro e pensi: nessun confine, nessuna guardia, nessun passaporto da esibire. Un miracolo dopo tanti lutti. E come arrivi lì a Fiume, oggi Rijeka, e cominci a muoverti per il centro, capisci che è una città che appartiene a tutti. Dove le vie, le piazze e le rive, come spiega Massimo Superina nel suo Stradario di Fiume, dal Settecento ad oggi che dimostra l’accavallarsi di toponimi tedeschi, ungheresi, croati, italiani, non sono più dedicate (salvo Uliza Alessandro Manzoni) a Petrarca, Oberdan, Michelangelo o men che meno esistono ancora, ovvio, Viale Mussolini o piazza Gabriele D’Annunzio. Il cantore muscolare dell’italianità nell’«impresa» del ‘19: «Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione...»
Anche se non ci sono più il «Caffè degli Specchi», le tre indimenticabili osterie di via Garibaldi o la sartoria da uomo Malzone, il gran mercato costruito nel 1880 con archi di ingresso dominati uno da un’aquila bicefala e l’altro da una monocefala, è rimasto lo stesso e così le bettole nei dintorni e gli eleganti palazzi del centro compresa la sede della nostra minoranza dove nel ‘57 Francesca Sanvitale incontrò il presidente Giusto Massarotto il quale le spiegò: «L’Unione degli italiani ha il compito di rafforzare la fratellanza e la coesione degli italiani agli altri popoli del nostro Paese e di sviluppare tra i connazionali l’amore per la Jugoslavia socialista». Un’idea che fece danni gravissimi alla nostra comunità. E ribaltata solo a partire dal 1988 quando l’intellettuale liberale e vignettista Franco Juri, il fratello Aurelio, Eros Bicic e altri ragazzi che non ne potevano più di parole d’ordine bolse diedero vita al Gruppo 88. Che nel giro di pochi anni suonò la riscossa degli italiani rimasti al di qua del confine, si tolse di dosso il complesso di colpa di tanti padri (per quanto i più avessero scelto come Virgilio Babich di fermarsi controvoglia perché i vecchi genitori non volevano lasciare casa e campi) e, fatta la pace con un Francesco Cossiga troppo brusco, aprirono un dialogo molto più stretto con l’Italia.
Una rinascita identitaria straordinaria mai infettata dall’odio revanscista. E capace di reggere al progressivo declino demografico grazie a un grande sforzo culturale (esistono ancora decine istituti scolastici con 4.731 alunni dalle «materne» alle superiori come quattro ginnasi e il liceo di Fiume) e alla capacità, rivendicata da Maurizio Tremul e gli altri, di tenere uniti gli italiani nell’Unione perfino dopo la guerra jugoslava e la spaccatura così radicale tra Croazia e Slovenia che l’iniziale confine tra i due Stati, spacciato come un «confine di seta» finì per sfociare in guerricciole allucinate come a Villa Cucini dove i burocrati croati concessero solo dopo mille beghe una specie di «estradizione» a un morto che aveva la tomba di famiglia nel cimitero tolto alla Slovenia. Per non dire dell’ultimo insulto alla convivenza. Quei chilometri e chilometri di filo spinato tirato su sette anni fa, a cavallo tra il 2015 e il 2016, lungo il confine sloveno-croato. E rimasto oggi per larghi tratti, nonostante le proteste, ancora lì dove stava. Dicono che manchino i soldi per toglierli tutti. C’è chi scommette, però, tanto più dopo aver visto l’ultimo documentario di Andrea Segre («Trieste è bella di notte») sui viaggi della disperazione sulla rotta balcanica, che la «pigrizia» nello smantellare l’ultima e feroce barriera sia in qualche modo benedetta dallo stesso governo italiano. Occhio non vede, cuore non duole... Una cosa è certa, spiega il presidente dell’Associazione fiumani nel mondo Egidio Giuricin che con la giornalista Rosanna Turcinovich ha organizzato il primo incontro a Fiume dopo la svolta, l’abbattimento delle barriere deve avvenire anche nelle nostre teste: «Le minoranze odiano i confini. Le frontiere sono direttamente connaturate alla loro nascita. Senza divisioni territoriali fra Stati e designazioni di confini, le minoranze nazionali e linguistiche non esisterebbero».