La Stampa, 8 febbraio 2023
Contro la riforma delle autonomie
Chi semina vento raccoglie tempesta. L’autonomia differenziata delle regioni oggi voluta dalle destre si fonda su una modifica costituzionale promossa da un governo di centro-sinistra. Ha dunque ragione chi dice che l’autonomia differenziata è in Costituzione. Ma quale Costituzione?Il comma 3 dell’art. 116, quello che consente «forme e condizioni particolari di autonomia» alle regioni che individualmente lo chiedano, non appartiene al testo uscito dalla Costituente nel 1947, ma al titolo V come modificato nel 2001. In quel frangente, parve ai Soloni del governo che una devoluzione “leggera” potesse arginare le fortune politiche della Lega Nord, che peraltro votò contro, con tutta la destra; e data l’esigua maggioranza parlamentare la modifica fu approvata solo dopo un referendum a bassa affluenza (il 34,1% degli elettori). Chi oggi si oppone da “sinistra” alla nuova legge dovrebbe riflettere su tali discontinuità della propria parte politica. Se le destre allora si opposero al cambiamento, era perché temevano che quel «federalismo morbido» restasse nominale; ma chi lo volle allora e lo contesta oggi dovrebbe sapere che le modifiche strumentali, concepite per restare sulla carta, incidono invece profondamente sulla Carta (con la C maiuscola).Ogni modifica della Costituzione è una bomba a orologeria. Il gioco pericoloso del 2001 si ritorce oggi contro chi se ne vantò allora, e da allora si guardò bene dal correggere l’errore (ci provò maldestramente la riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata da un referendum a cui partecipò il 65,47% degli elettori, più che nelle politiche 2022).In questo Paese smemorato, è bene riavvolgere ogni tanto il nastro della storia. La Costituzione nata dalle macerie della guerra e del fascismo incoraggiò le autonomie locali, riconosciute sin dall’art. 5, che invita a riformare la legislazione secondo «le esigenze dell’autonomia e del decentramento». Ma nelle intenzioni dei Costituenti le articolate autonomie locali erano concepite come l’impalcatura che regge la piena unità della Nazione e l’assoluta eguaglianza di tutti i cittadini e della loro dignità. Lo spazio di autonomia delle regioni era definito da un sistema di bilanciamenti di cui erano parte essenziale comuni e province, definiti «enti autonomi» dagli articoli 118, 128 e 129. Se volessimo rispettare quello spirito, prima di ogni estensione dell’autonomia regionale bisognerebbe ricostruire la piena funzionalità delle province, ancora prescritte dalla Costituzione nonostante lo sciatto tentativo di semi-abolizione perpetrato dal governo Renzi; e assicurare che le province vengano amministrate da organi liberamente eletti dai cittadini, come oggi non è più.Nella Costituzione del 1948 le autonomie locali dovevano essere il lievito della nuova Italia repubblicana, ma il forte ritardo nella formazione delle regioni (salvo quelle a statuto speciale) generò una coda di paglia, un nodo irrisolto che si è presto tradotto in polemica contro il centralismo, nella ciclica rivendicazione di autonomia e nelle tendenze secessioniste della Lega, ma anche nel federalismo morbido di una “sinistra” incline più a imitare i propri avversari che a combatterli. In questa strada, lastricata più di ansia di potere che di buone intenzioni, fanno da battistrada le regioni a statuto speciale, specialmente la Sicilia, che ottenne nel 1975 la piena autonomia perfino in materia di beni culturali e paesaggio, sottraendo da subito la regione più vasta d’Italia al ministero dei Beni Culturali costituito pochi mesi prima. Quando nel 1970 le regioni a statuto ordinario presero lentamente a decollare, e una serie di leggi e decreti delegati trasferirono a esse fondi, personali e potere, il secondo e terzo decentramento (1977 e 1997) furono governati dai rapporti di forza fra la parte politica al governo nazionale e i partiti che amministravano le regioni. Da allora, a insistere sulla devoluzione di determinate materie sono stati governi regionali di vario orientamento: nel 2017, l’Emilia-Romagna presieduta da Bonaccini accanto al Veneto di Zaia e alla Lombardia di Maroni.Ma la Costituzione non è una litania di articoli da evocare uno alla volta a seconda delle convenienze. È una sapiente architettura, un progetto lungimirante e coerente in cui la sovranità popolare (art. 1), il bilanciamento fra diritti inviolabili e doveri inderogabili (art. 2), la pari dignità di tutti i cittadini e la loro eguaglianza di fronte alla legge (art. 3), il diritto al lavoro (art. 4) definiscono uno spazio politico e culturale di libertà, in una «Repubblica una e indivisibile» che proprio per questo «riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5). È per questo che sono contrari allo spirito e alla lettera della Costituzione la segmentazione delle istituzioni, la disuguaglianza nell’esercizio dei diritti, la moltiplicazione di norme incoerenti fra loro. Già sapevamo che la regionalizzazione della sanità, portando a marcati squilibri fra regioni (e più in generale fra Centro-Nord e Sud), viola l’art. 32 della Costituzione, secondo cui la salute è «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». L’esperienza della pandemia ha reso ancor più evidenti le diseguaglianze, ma non ha generato alcun provvedimento correttivo. Egualmente, il diritto all’istruzione (art. 33) va esercitato in modo identico su tutto il territorio nazionale. L’art. 9, prescrivendo di tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», comporta che tale compito debba essere esercitato in tutta Italia secondo gli stessi criteri. Ma su questi fronti essenziali (istruzione, ricerca, cura del suolo e delle arti) abbiamo preso di fatto la direzione opposta. Il progressivo indebolimento delle garanzie costituzionali ha preparato il terreno per l’imminente devoluzione, che accrescerà le spese e dunque diminuirà ancora l’efficacia delle istituzioni e dei servizi.Un territorio fragile, un dissesto geo-idrologico che interessa aree a cavallo fra più regioni, una biodiversità in liquidazione se non interverranno drastici piani di protezione a livello quanto meno nazionale (e semmai europeo, non regionale), il crescente oblio della storia e della cultura che erode le coordinate elementari della collettività e della cittadinanza, una sanità ferita da tagli sconsiderati (e diseguali) di fondi e di personale, la ricerca impoverita dalla precarietà e diseguaglianza delle università. Questi e altri problemi richiedono un grande sforzo a livello nazionale e sopra-nazionale, e non la spartizione di potere e risorse che prende il nome di federalismo. Etichetta vaga, contraddittoria e opportunistica, che di fatto copre il suo opposto: non accompagna, come nei veri Stati federali (Usa, Svizzera), un processo di aggregazione, ma al contrario innesca i meccanismi disgregativi del federalismo «dissociativo»: come in quella che fu la Cecoslovacchia o in quella che fu la Jugoslavia. Il federalismo è il fratello bugiardo della secessione.Che cosa accadrà di questa neo-autonomia, che cosa se ne faranno le due anime dell’attuale governo, aspirazioni centralistiche da un lato e dall’altro pulsioni separatiste? Paradossalmente, questa intrinseca contraddizione obbliga i partiti al governo a marciare insieme sotto bandiere opposte, pur di non perdere il potere che hanno conquistato. Se così sarà, ci toccherà assistere, come troppe volte ci è accaduto nella nostra infelice storia recente, a una perpetua guerra di posizione, fatta di piccole furbizie da una parte e dall’altra per negare quel che si sta facendo travestendolo da qualcos’altro; per affermare fedeltà alla Costituzione proprio mentre la si tradisce; per conclamare la propria coerenza nel momento stesso in cui vi si rinuncia. La decantata “democratizzazione” del partito post-fascista a cui appartiene la presidente del Consiglio sarà forse proprio questo adeguarsi al peggior malcostume della politica italiana degli ultimi decenni?