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 2023  febbraio 07 Martedì calendario

Intervista a Mario Vargas Llosa

In una casa dagli spazi enormi, inondata di luce e libri, ci accoglie lo scrittore ispano-peruviano Mario Vargas Llosa – è nato ad Arequipa, in Perù, 86 anni fa —, premio Nobel per la Letteratura nel 2010. Questo è il suo famoso rifugio di calle de la Flora, nel cuore di Madrid, una casa che l’autore abbandonò sette anni fa per andare ad abitarne un’altra, ancora più famosa, nell’esclusivissima zona madrilena delle grandi magioni, Puerta de Hierro: la casa di Isabel Preysler, nota regina di cuori e delle notizie su carta patinata. «Ho vissuto un’esperienza e si è conclusa, tutto qui. Ora sono di nuovo in questa casa, circondato dai miei libri», dice nel corso dell’intervista, ridendo come se avesse fatto ritorno a Itaca. «Non mi pento assolutamente di nulla», precisa un istante dopo. L’autore di classici della letteratura universale come La città e i cani, Conversazione nella “Catedral”, La casa verde, La guerra della fine del mondo o La festa del Caprone è di umore allegro. Giovedì 9 sarà uno dei giorni più importanti della sua vita: farà ingresso nell’Académie Française, fondata dal cardinale Richelieu nel 1634, e sarà il primo scrittore della storia di questa istituzione a diventarne membro pur non avendo scritto le proprie opere in francese.
Gli accademici di Francia sono detti “gli immortali”.
«Troverei noiosissimo essere immortale. Il domani, il dopodomani, l’infinito… No, meglio morire. Più tardi possibile, ma morire».
Alla gloria postuma, ci pensa?
«Mai fatto in vita mia. Penso ai miei figli, ai nipoti, ma sui miei libri non penso nulla. Ho scritto libri che meriterebbero di sopravvivermi, certo. Conversazione nella “Catedral”e La guerra della fine del mondo. Cosa ne sarà si loro dopo che sarò morto? Non ho di questi pensieri».
E che pensieri ha?
«Io quel che non sopporto è il deterioramento. Adesso, per esempio, ho problemi di memoria. Ho sempre avuto una memoria molto nitida, e ora noto che mi si è impoverita. Inevitabile, gli anni sono 86. Certe cose le ricordo più di altre, ma… Alcuni nomi, ad esempio: rivedo i volti, ma i nomi li ho persi».
Il fatto fondante della sua vita è stato iniziare a leggere.
«Di colpo entrai in un mondo infinito, a differenza di Cochabamba, la cittadina dove ho vissuto da bambino. Potevo viaggiare, e oltretutto viaggiare nel tempo: andare verso il futuro, o nel passato. I libri erano avventura, sempre. Mia madre mi aveva vietato di leggere un libro che teneva sul comodino. Lo ricordo alla perfezione, era un libro dalla copertina gialla a caratteri blu, di Pablo Neruda: Venti poesie d’amore e una canzone disperata. Ricordo alcuni versi, all’inizio della prima poesia: “Il mio corpo di zappatore selvaggio ti solca e fa spuntare il figlio dal fondo della terra”. E allora mi dicevo: lì ci deve essere il peccato, ma quale? Non lo sapevo, ma avevo il sospetto che si annidasse lì dentro».
Nell’autobiografia Il pesce nell’acqua racconta che suo padre era sconcertato dalla sua scelta.
«Pensava che gli scrittori e i poeti fossero tutti ubriaconi o froci: gli facevano orrore. Un figlio scrittore trascorreva le notti in preda a sbornie spaventose: era questa la sua idea di vocazione letteraria. Mi mise in un collegio militare, il Leoncio Prada, convinto che militari e letteratura non potessero andare d’accordo. Non colpì il bersaglio, perché proprio al Leoncio Prada iniziai a scrivere da professionista: scrivevo le lettere di un gran numero di militari per le fidanzate».
E Flaubert?
«La grande scoperta della mia vita, sono lo scrittore che sono grazie a lui. Flaubert aveva ingannato suo padre inventandosi una malattia – diceva di vedere delle luci che gli provocavano mancamenti —, perché il padre voleva che si dedicasse a una professione liberale. Era medico, dirigeva un ospedale, e alla fine si rassegnò e lo rinchiuse nella casa di un paesino, Croisset, e lì Flaubert scrisse Madame Bovary. Io sognavo di andare in Francia. Quando ci arrivai accadde una cosa molto divertente, e cioè che i francesi, all’improvviso, iniziarono a leggere i latinoamericani: Borges, Cortázar, Fuentes, e poi García Márquez. A Parigi, quindi, io iniziai a sentirmi latinoamericano, e scoprii che le frontiere erano artificiali: cosa differenziava il Perù dalla Colombia o dalla Bolivia? Niente. Avevamo problemi in comune: i golpe dei militari, per esempio».
Appena arrivò a Parigi, cosa fece?
«La sera che arrivai, in una libreria molto famosa, La joie de lire, che rimaneva aperta fino a mezzanotte, comprai una copia di Madame Bovary. Trascorsi la metà della notte a leggere il romanzo, rapito da quel linguaggio assolutamente esatto, preciso, elegante e molto funzionale al tempo stesso. Ho sempre avuto la vocazione dello scrittore, ma in Perù provavo una grande angoscia, della quale mi liberai grazie a Sartre. Era molto energico, ti convinceva e ti diceva: anche se provieni da un piccolo paese africano dove tutti sono analfabeti, puoi denunciare una certa cosa, puoi scriverne. Sono stato un fedele seguace di Sartre fino a quando, ormai negli anni Sessanta, ho letto quel che diceva a due scrittori africani: “Voi dovete fare la rivoluzione per poi fare letteratura”.
Mi sembrò un tradimento, e da allora iniziai a prendere le distanze da lui».
Molti di quelli che iniziano con Sartre finiscono poi per sentirsi più vicini a Camus.
«Sì. Camus non aveva la formazione di Sartre. Non aveva letto quel che aveva letto Sartre, ma era molto più realista. Io l’ho conosciuto. Mi avevano detto che si trovava in uno dei teatri dei grandi boulevard di Parigi. Ci andai con una rivista di poche pagine, una cosa minima che pubblicavamo in Perù e si chiamava Literatura. Con lui c’era María Casares, l’attrice galiziana. Provai a parlare con loro in francese, e lui mi rispose in spagnolo. Parlammo in spagnolo per un po’, fu molto simpatico, molto educato, e pochi mesi dopo morì in un incidente d’auto. Mi sta venendo in mente un pomeriggio a Parigi».
Lo racconti.
«Lì, il primo scrittore latinoamericano che conobbi fu Cortázar. Andavamo sempre a fare delle passeggiate insieme. Un giorno mi disse: “Questo pomeriggio devo scrivere Il gioco del mondo e non so cosa sta per succedere”. A me sembrava del tutto incredibile! “E allora cosa fai? Ti siedi davanti alla macchina da scrivere e… ?”, gli chiesi. “Sì, mi siedo e comincio così, con le dita, e la memoria inizia a funzionare”, rispose. Rimasi di stucco, io lavoravo talmente tanto, prima di cominciare a scrivere!». La famiglia Cortázar viveva in modo molto modesto. Disponevano nient’altro che di poche stanzette, vicino a una piazza».
“Quando eravamo più poveri e più felici”, scrisse Hemingway a proposito di Parigi.
«Io Parigi la sognavo. Ma la cosa più importante è stata la scoperta di Flaubert. Una scoperta che mi ha convinto a dedicarmi alla letteratura come faceva lui: lavorare su ogni singola frase, su ogni parola, leggere a voce alta e sentire che il testo fila, che ti stupisce. E, soprattutto, provare orrore per gli aggettivi».
L’egemonia del verbo.
«La città e i cani, La casa verde e Conversazione nella “Catedral” sono stati realizzati in questo modo. Ho la sensazione che il primo romanzo importante che ho scritto sia Conversazione nella “Catedral”. Va oltre la descrizione dei grandi problemi peruviani».
Quando nel 2000 lei pubblicò La festa del Caprone, a García Márquez venne attribuita una frase: “Non si fa una cosa del genere a un anziano come me”, che significa che Márquez si era ormai convinto che per voi due fosse finita l’epoca d’oro in cui si scrivono romanzi davvero grandi.
«Era il mio primo viaggio nella Repubblica Dominicana, ci andai per girare un documentario. Trujillo era stato ucciso da diversi anni e la gente iniziava a poter parlare, a raccontare cose, e una di quelle storie mi colpì moltissimo: dicevano che i contadini regalassero a Trujillo le loro figlie, bambine. Fu in quel momento che decisi di scrivere il romanzo di Trujillo».
Poco fa, mentre parlava degli aggettivi, ho pensato a García Márquez, che li usa con più abbondanza.
«Ho contribuito molto a far conoscere Cent’anni di solitudine. Ho scritto tantissimi testi sul libro. Conobbi García Márquez per via epistolare, in realtà. Io vivevo in Inghilterra, e lui in Messico. Ci scrivemmo. Provammo a scrivere insieme un romanzo sulla guerra scoppiata tra Perù e Colombia a Leticia, nella foresta amazzonica».
A quattro mani?
«Volevamo scrivere un romanzo in due, ma era impossibile, perché García Márquez ne sapeva molto più di me di quella guerra, per me era un avvenimento molto vago, invece. Ci scambiammo tantissime lettere, che si conservano a Princeton».
E più tardi, quando entrambi vivevate a Barcellona, vi frequentavate.
«Sarei rimasto in Inghilterra, perché mi piaceva insegnare. Un giorno però arrivò Carmen Balcells (la celebre agente letteraria, ndr) ,spalancò la porta con un gran calcio, era carica di regali per i miei figli, e mi disse: “Tu da oggi pomeriggio ti trasferisci a Barcellona”. E così andammo a Barcellona. I cinque anni trascorsi lì furono meravigliosi. Era una Barcellona diversa da oggi. Non c’erano indipendentisti. Tutte le grandi case editrici avevano sede lì».
Perché se n’è andato?
«Perché alla fine andarono via tutti. García Máquez in Messico. E Patricia, mia moglie, rimane incinta. Ero preoccupatissimo. Andammo in Perù, facemmo il viaggio in mare, un viaggio meraviglioso».

(Il 12 febbraio del 1976, dopo un lungo periodo in cui non si sono visti, Gabriel García Márquez va a trovare Vargas Llosa in Messico e quest’ultimo gli assesta un pugno, il pugno più famoso – e misterioso – della letteratura universale. Nessuno dei due ha mai voluto parlarne, e da allora smisero per sempre di essere amici).

Cosa può portare a rompere un’amicizia come quella tra lei e García Márquez, così intima, di così tanti anni?
«Donne, è semplice».
Si pente di qualcosa?
«Non mi pento di nulla, assolutamente di nulla».