La Stampa, 7 febbraio 2023
Intervista a JR
Occhi enormi e facce tanto grandi da incartare piazze intere, sono persone che non si notano, ragazzini che non si vedono, profughi che contano solo nelle statistiche di chi prova a farli sparire. Oggi, a Torino, sarà impossibile ignorarli. JR, notissimo artista francese che si è inventato la professione del fotograffitaro, coinvolge più di 500 persone in una performance di arte pubblica, nell’anteprima di Déplacé?e?s: mostra che si inaugura alle Gallerie d’Italia Intesa Sanpaolo tra due giorni.
Prima personale italiana e sintesi di un viaggio che l’ha portata dentro la guerra in Ucraina, tra i rifugiati in Rwanda, a Lesbo, in mezzo agli sbarchi. Perché il traguardo è qui?
«Ho fatto molti lavori in Italia, il vostro Paese è un acceleratore di situazioni, ottimo per me che unisco persone. Continuo a tornare, trovo ogni volta un nuovo pezzo del puzzle che si attacca a quelli raccolti per il mondo e incastrati compongono questa mostra».
È stato nelle favelas, nelle bidonville, cerca gli invisibili e li mostra in foto monumentali. Che cosa hanno in comune questi volti?
«L’attesa. Potrebbero stare ovunque. Prendete Milano, il progetto in piazza Duomo che si ispira al mio, ma non è firmato da me: hanno installato immagini extra large di anziani fotografati da giovani. I vecchi sono ai margini, non visti. In Mauritania, ho attraversato il deserto per arrivare al campo profughi più isolato al mondo: là sanno di essere dimenticati eppure, persino prima del mio arrivo, agitavano striscioni per segnalarsi. Tutti sappiamo che il potere delle immagini può cambiare la nostra vita».
Davvero tutti ne sono consapevoli?
«Non è una mia invenzione, è un pensiero radicato nell’essere umano. Io uso l’energia che genera la voglia di apparire, di esistere agli occhi degli altri. Lo vedrete a Torino con centinaia di persone mobilitate per trascinarne altre, quelle che faticano ad avere spazio e hanno bisogno di qualcuno che apra loro la porta».
Questo lavoro inizia dove lei è nato, nella periferia di Parigi: la banlieu diventata sinonimo di tormento sociale. Sta ancora nell’ombra?
«Sono un immigrato di seconda generazione, mio padre e mia madre hanno origini tunisine. In Francia tutti vengono da un luogo diverso, si sentono profondamente francesi e vengono considera stranieri. Sembrerebbe una identità fantasma, invece genera aggregazione in comunità, uno spirito che mi piace. L’unico fattore che può cambiare il mondo è unirsi, un atto magico».
Si può ancora cambiare il mondo, dopo che i sogni hippie sono scaduti, nel pieno del cinismo?
«Cambiare il mondo sembra una missione impossibile, invece succede. Le mie gigantografie in movimento mettono insieme centinaia di migliaia di persone e questa azione resta. La performance è una conseguenza, conta il momento, le ore passate in gruppo: l’immagine è riprodotta su un tessuto che si deteriorerà, la memoria dell’atto però rimane. Degli sconosciuti realizzano un’idea collaborando, creano una piccola e semplice magia che sposta la percezione e se questa presa di coscienza si ripete e si diffonde, allora, il mondo cambia sul serio, senza proclami. L’arte schiaccia il pessimismo».
L’arte è l’ultima utopia?
«Il mio ruolo è tenere uno sguardo lucido in mezzo al marasma. Se scrivo i miei progetti su un pezzo di carta li vedo irrealizzabili, ma se inizio a fare scopro che, nonostante il rischio di fallire, ci sono più probabilità di avere successo. Vi stupireste di quante volte succede».
Quando si è stupito?
«Capita di continuo. Quando io e la mia squadra abbiamo realizzato Il bambino al confine, un bimbo che guarda oltre il muro tra Messico e Stati Uniti, temevamo di essere arrestati, la polizia circondava l’area. Una sola pattuglia è arrivata e mi sono detto: è finita. L’agente ha solo chiesto informazioni, ci ha offerto un tè. Ho postato il video e poi sono rimasto in contatto con lui. Ora è in pensione e sarà all’inaugurazione di Torino. Pazzesco no? Quel bambino ha avuto un impatto su di lui e se avesse voluto avrebbe potuto obbligarci a cancellarlo».
L’arte di strada è un atto politico?
«Non sono un attivista, ho cominciato con i graffiti, volevo essere visto e mentre cercavo di crearmi un nome mi sono accorto di tutte le persone che non si notano, mi è venuta voglia di accendere un riflettore sugli esseri umani ignorati. Non do risposte, non le ho, faccio solo domande».
In Women are heros che domande fa?
«Perché le donne sono pilastri in Paesi che non le riconoscono? In Liberia, Sierra Leone, Cambogia, ovunque il controllo è esclusivamente nelle mani degli uomini ma la stabilità è a carico delle donne. Come è possibile?».
Le donne, in Occidente, sono tra gli invisibili?
«Sì, perché partiamo da un ritardo incredibile, c’è così tanto lavoro arretrato che il numero di donne nascoste dalla società resta insopportabilmente elevato».
C’è più lavoro da fare per integrare le seconde generazioni o per pareggiare i diritti di genere?
«Dove sono cresciuto la questione multietnica è predominante, ma oggi è difficile dire quale situazione sia più lontano dall’equilibrio. Contro le discriminazioni si fa un passo avanti e poi due indietro. È un progresso fragile. Anche su questo fronte si sottostima il potere dell’arte. Meglio così, altrimenti sarei meno libero».
Ha incontrato Hamilton, campione di Formula 1 e attivista in una favela di Rio.
«Siamo amici, ho aperto una scuola in Brasile nel 2009 e lui è venuto a visitarla. Dopo ci siamo rivisti spesso, l’ultima volta è stata speciale. Ho piazzato una luna a 40 metri di altezza, sopra la favela, si vede da ogni parte, attira e la regola lì è: chiunque entri insegna qualcosa ai bambini. La luna incuriosisce e continua ad arrivare gente che deve lasciare traccia. Hamilton compreso».
L’arte flirta con l’Intelligenza artificiale. Lei ne è più intrigato o spaventato?
«Entrambe le cose. In certe opere puoi passare il telefono sui ritratti e scoprirne le storie: non è riconoscimento facciale, è realtà aumentata. La tecnologia è affascinante, anche se io ho bisogno dell’azione arcaica, della fisicità, del tatto, del contatto. È quello che ci rende umani».
Se dovesse scegliere una singola immagine per raccontarsi quale sarebbe?
«Difficile. Direi la donna iraniana con i capelli che si muovono. Per la prima volta ho animato una foto grazie alle persone: è il loro movimento che agita i capelli e oggi è un messaggio potente. —