Corriere della Sera, 7 febbraio 2023
Cinquemila euro per vedere Springsteen
Le parole raccontano di «un’estate dolce e maledetta» in cui due ragazzi (entrambi maschi? non si è mai capito) diventano amici, forse amanti. Si nascondono nelle case disabitate sulla spiaggia, si ubriacano al sole. Poi – tra mille rimpianti – si separano. Era il 1975 e la canzone, intitolata Backstreets, finì a chiudere il primo lato di Born to Run, il disco che lanciò definitivamente Bruce Springsteen nello stardom del rock&roll. Il suo autore non poteva immaginare che poco dopo il critico Greil Marcus avrebbe definito il brano «una versione moderna dell’Iliade». Che nel 1980 il titolo del pezzo sarebbe diventato quello di una fanzine dedicata interamente a lui. E tantomeno che altri 43 anni dopo quel giornale avrebbe sancito un altro divorzio, tra i più inaspettati e traumatici della storia della musica: quello tra lui stesso – «il Boss» – e i suoi fan più incalliti.
Nel weekend appena trascorso Backstreets, la fanzine, da decenni punto di riferimento di milioni di appassionati, americani e non, ha annunciato la propria chiusura, in polemica con il suo nume tutelare, dopo sei mesi di amarezza e accuse sul prezzo astronomico dei biglietti che Springsteen e il suo entourage hanno deciso di adottare per le vendite del tour mondiale – primo in sette anni – cominciato in Florida l’1 febbraio e atteso anche in Italia tra maggio e luglio. «Ci sentiamo scoraggiati, abbattuti e, sì, delusi – ha scritto il direttore Christopher Phillips – e non sono i sentimenti a cui siamo abituati quando un tour di Bruce e la E-Street Band (il suo storico gruppo, ndr) inizia». Il punto è proprio che molti di loro, i fan più fedeli della Terra, negli stadi di questo tour non metteranno piede: troppi i 1.000, 2.000, anche 5.000 dollari per ogni ingresso, chiesti dall’infernale sistema «dinamico» che regola automaticamente il prezzo in base al volume della domanda. E dovrebbe così evitare i bagarini digitali, ma finisce per generare una selezione sul reddito brutale e inaccettabile, almeno per chi ha venerato tutta la vita una star che aveva fatto del rapporto «democratico» con i fan – in larga parte provenienti da quella working class cantata nelle sue stesse canzoni – la bussola della propria immagine pubblica (in Europa e in Italia il «dynamic pricing» non era attivo e i prezzi sono rimasti, diciamo, «bassi»: sotto i 200 euro).
Il rocker
Il Boss aveva detto:
«I prezzi? A 73 anni ho voglia di fare come tutti i miei colleghi»
«Ci avete gettato in pasto ai lupi, in un modo tanto incomprensibile quanto evitabile», scrisse lo stesso Phillips nel luglio scorso, quando si scoprì che il meccanismo non era la speculazione di qualche intermediario, ma una scelta precisa. Lo chiarì per primo il manager di Bruce, Jon Landau. Ma ai fan rimase la speranza di un intervento del capo supremo. Poi la doccia fredda, azionata a sorpresa dalle colonne di Rolling Stone a novembre. «Hey, quel denaro finiva ai bagarini, così almeno paga chi suda sul palco. Comunque, a 73 anni voglio fare come i miei colleghi musicisti. So che a qualcuno il sistema non piace ma, se è deluso dopo lo show, possiamo sempre ridargli i soldi». Firmato: Bruce Springsteen.
Molti che magari hanno visto nella vita 10, 30 o anche 100 concerti del Boss (nelle code c’è sempre la gara a chi ne conta di più), questa volta non faranno nemmeno la prova, pena il rischio della bancarotta. Ma forse il punto è un altro: «Mai ci saremmo immaginati che tu fossi come gli altri, Bruce» – hanno scritto sui social, tra le lacrime e la collera, mentre il più familiare dei portoni veniva sbattuto loro in faccia, relegandoli forse per sempre ad aspettare (almeno metaforicamente) nelle backstreets, le strade secondarie di quella cavalcata rock del ’75. L’epoca in cui nemmeno il Boss, presumibilmente, avrebbe avuto i soldi per entrare a uno show del se stesso settantenne.