il Giornale, 6 febbraio 2023
Sulle tracce dei cibi rari
Il farro kavilka, in Anatolia, parla del nostro passato: è uno dei cereali più antichi conosciuti dall’uomo, coltivato da diecimila anni, anche se oggi ne restano pochissimi campi. L’orzo bere parla del futuro: non ha bisogno di nulla per crescere nel clima e nel terreno impossibili delle Orcadi. Come l’Olotón, il mais coltivato dai Mixe sugli altopiani orientali del Messico, che ha delle spighe alte sei metri e si fertilizza da solo... La soia O-Higu dell’isola giapponese di Okinawa parla di resistenza: sopravvivenza, identità e autosufficienza. E i piselli rossi Geechee dell’Isola di Sapelo, di fronte alle coste della Georgia, parlano di libertà: quella degli schiavi trascinati dall’Africa agli Stati Uniti, che solo lontano dalla terraferma potevano coltivare i prodotti della tradizione. Cibi selvatici e coltivati, cereali, verdure, carne, frutta, formaggi, pesci e perfino ostriche (quelle piatte della Danimarca) a rischio di scomparire: sono loro, alimenti eccezionali, per le qualità, la storia, il legame con il territorio e la cultura di chi da millenni se ne prende cura e, grazie a essi, sopravvive, i protagonisti di Mangiare fino all’estinzione di Dan Saladino (Einaudi). VIAGGIO TRA I CAMPI Giornalista della Bbc, per dieci anni ha girato dall’Australia alla Sicilia, dalle Far Oer alla Cisgiordania, per raccontare «I cibi più rari del mondo e perché dobbiamo salvarli». Cosa che fa in questo saggio e che sta continuando a fare: infatti è appena andato in Colombia, ispirato da Nikolai Vavilov, scienziato viaggiatore degli anni Venti e Trenta del Novecento. Ecco chi era Vavilov: «Un botanico russo – racconta Saladino da Medellín – che ha attraversato cinque continenti a caccia della varietà di semi e di cibi, perché credeva che il futuro dell’umanità si basasse sul salvare questa varietà». Il punto è: i cibi diventano rari perché mangiamo quasi tutti sempre gli stessi, pochi, alimenti. In cifre, nei millenni ci siamo nutriti di oltre seimila piante, oggi solo di nove; e, di queste nove, tre (riso, frumento e mais) ci forniscono, in media, il 50% delle calorie. Come è successo? «Le scoperte scientifiche all’inizio del XX secolo hanno reso l’uniformità in agricoltura attraente e redditizia» dice Saladino. Poi c’è stata la «rivoluzione verde» degli anni ’60: «Varietà altamente malleabili di grano, riso e mais ottenute grazie alla genetica, nuovi sistemi di coltivazione e di irrigazione, e un largo utilizzo di prodotti dipendenti da combustibili fossili, ovvero pesticidi e fertilizzanti». L’obiettivo era sfamare tutti, ma poi... «Questo successo iniziale fu tale che le nuove varietà di frumento si diffusero velocemente nel mondo, rimpiazzando la varietà di coltivazioni sviluppate dagli agricoltori in migliaia di anni. Il Global Seed Vault, alle Svalbard, contiene più di duecentomila campioni di frumento, ma oggi un agricoltore europeo può scegliere al massimo fra una decina, tutti geneticamente simili». CHE RISCHI LE MONOCOLTURE Non è solo una questione di gusti, o di abitudini. I rischi delle monocolture sono quelli di «un portfolio con poche azioni»: «Un sistema alimentare globale che dipenda da una ristretta selezione di piante, e da un piccolo numero di varietà di esse, è a maggiore rischio di soccombere a malattie, parassiti e eventi climatici estremi». Sta già accadendo, per esempio, alla banana Cavendish: «La malattia di Panama, causata da un fungo, sta sfruttando l’uniformità genetica delle monocolture di banane nel mondo, distruggendone piantagioni intere, insieme alle vite dei coltivatori». Gli scienziati si sono messi al lavoro per cercare di aumentare la resistenza a queste malattie, scoprendo paradossalmente che «molte delle caratteristiche che cerchiamo, come la resistenza alle malattie e alla siccità, possono essere ritrovate proprio nei cibi più a rischio di estinzione». Stiamo cominciando solo ora a scoprire quanto siano sofisticati ingredienti e sistemi alimentari tradizionali: «In Turchia – racconta Saladino – ho viaggiato per vedere un tipo di farro che aveva alti livelli di resistenza alle malattie, in Messico c’è un raro mais autofertilizzante che potrebbe aiutarci a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e, nel libro, spiego che gli agrumi in India potrebbero avere i tratti genetici del cibo del futuro. Nelle foreste potrebbero esserci gli antenati degli agrumi commerciali, con geni unici, resistenti alle malattie e in grado di affrontare i cambiamenti climatici, geni che abbiamo perso». IL CIBO CHE CI CURA Non è tutto. Il nostro benessere è legato anche alla varietà dei cibi che mangiamo: «Gli studi sul microbiota intestinale dicono che, maggiore è la differenziazione nella nostra dieta – almeno 30 specie diverse di piante in una settimana – maggiore è la diversità del nostro microbiota, e maggiori sono i benefici fisici e mentali. I cacciatori-raccoglitori Hazda della Tanzania hanno un menu potenziale di 800 piante e specie animali a disposizione»... Proprio vedere gli Hazda all’opera, nel raccogliere il loro rarissimo miele, è stata una delle tappe più straordinarie del tour alimentare di Saladino: «Nella savana dell’Africa orientale, vicino al lago Eyasi, in Tanzania, ho osservato gli Hazda raccogliere miele con l’aiuto dell’uccello-guida, che li conduce all’alveare in cambio di cibo... Sono i luoghi dove si è evoluto l’Homo Sapiens: è stata un’esperienza incredibile vedere gli Hazda sfruttare le loro abilità nel luogo di nascita della nostra specie». Sorprendente è stato l’incontro ravvicinato con il bisonte delle Grandi Pianure, allo Zapata Ranch, in Colorado: «Ero là per un progetto in cui si sta ripopolando e proteggendo la specie: un promemoria di quanto gli umani possano essere distruttivi ma, anche, del fatto che possiamo realizzare cambiamenti positivi». Quanto a distruttività, emblematico è il caso di uno degli alimenti ormai più rari: «Il salmone selvaggio dell’Atlantico». Che si sta estinguendo, mentre «l’altra specie, quella allevata, si è espansa su larga scala ed è diventata un cibo quotidiano». E potrebbe non essere un caso. La storia preferita di Saladino riguarda però l’alimento «più umile», la lenticchia del Giura svevo, in Germania: «Un legume unico, che negli anni ’60 era estinto. Un agricoltore ha trascorso anni per cercarne i semi e riportarlo in vita». Ha trovato quei semi in una banca in Russia: «Così è riuscito a salvare un cibo dall’estinzione. Era importante per lui perché quella lenticchia è parte della sua cultura alimentare, parte di un sistema agricolo e, anche, dell’eredità dei suoi antenati». L’umile lenticchia è un concentrato di ciò che rappresenta il cibo per chi cerca di salvarlo: «In certi casi, tutto: sicurezza alimentare, identità, cultura, sostegno e valore economico».