Il Messaggero, 6 febbraio 2023
Su "Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo" di Alessandro Campi (Marsilio)
Attenzione: non sprechiamo un grande tema, di straordinaria attualità, qual è quello della nazione. A lanciare questo allarme è un intellettuale moderato ma appassionato a cui non fa piacere, da una parte, vedere ridotto il concetto di nazione a vuota retorica patriottarda e, dall’altra, vederlo travisato - come si continua a fare a sinistra - legandolo al passato fascista. Stiamo parlando di Alessandro Campi, ben noto ai nostri lettori del Messaggero come editorialista di pregio, ed è lui a firmare un libro non di politologia ma di storia che ha per titolo Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo (che esce domani per Marsilio) e in cui si conduce un ragionamento orientato a capire come si possa declinare l’idea di nazione ai nostri tempi.
IDENTITÀ
Che sono quelli in cui la classica identità del Dio-Patria-Famiglia non risponde più, anche se molti stentano ad accorgersene, alla contemporaneità nella quale - per quanto riguarda ad esempio il nostro Paese - ci sono tanti nuovi italiani e c’è bisogno di legare loro e noi tutti, ognuno con la propria fede e con tutto il resto del bagaglio delle proprie diversità di provenienza culturale e anche etnica, a un vincolo di reciproco riconoscimento. Cioè a un’idea di nazione non formalistica ma comunitaria in senso allargato, pur se identificata in un unico spazio territoriale.
L’OCCASIONE
Sarà in grado la nuova destra di governo, quella guidata da Giorgia Meloni, a non perdere l’occasione che hanno sprecato le tre destre sue antenate - quella berlusconiana, quella del tempo di An, quella leghista - le quali dal punto di vista della traduzione pratica non hanno saputo sfruttare la risorsa dell’idea di patria? Se lo chiede Campi e fa bene a porsi questa domanda fondante. Perché, si potrebbe aggiungere, più che altre importanti riforme - ad esempio quella del presidenzialismo - per avvicinare i cittadini e le istituzioni, per ricongiungere il cosiddetto Paese reale al cosiddetto Paese legale, un concetto pratico di nazione non legato al sangue o alle memorie, non escludente ma largamente inclusivo, può essere la chiave e la svolta.Campi racconta come la nazione per Berlusconi era (per dirla alla francese) «La Nation c’est moi», mentre per la destra post-fascista è stata più che altro un rimpianto e per la Lega una piccola patria (quella padana). E di fatto, nessuna idea concreta e progressiva di nazione s’è affacciata nella Seconda Repubblica, mentre nella Prima quasi soltanto minoranze che si richiamavano all’ideale risorgimentale hanno praticato un moderno patriottismo d’impianto mazziniano, mentre le due Chiese democristiana e comunista professavano il loro universalismo. E dunque (prenda nota Meloni): «Se finora nemmeno le forze politiche che rivendicavano la nazione come riferimento preliminare sono riuscite a darle corpo e sostanza, la vera sfida è trasformarla in un obiettivo realistico, in un programma scientifico e che dia vita a una comunità al contempo particolare e plurale. Nel rispetto della convivenza sociale, ma in difesa delle proprie specificità». Vaste programme? Assolutamente, sì. Ma la politica in grande deve pensare e agire, per non ridursi a presentismo o a bla bla: tutti patrioti, ok, ma che significa esserlo, e di quale tipo di patria?
PREZIOSO
Un libro così è prezioso. Perché è di una nazione modernamente intesa che c’è bisogno. Quella per esempio in nome della quale Giuseppe Prezzolini, ai primi del secolo scorso, criticava i retori del nazionalismo e concepiva l’idea di nazione come progetto di emancipazione collettiva, che presuppone un’identità condivisa ma non si limita ad esaltarla come forma statica e assoluta e che nel perseguire lo sviluppo di una comunità particolare non si chiude egoisticamente entro i propri confini e non assume atteggiamenti aggressivi nei confronti delle altre comunità. Così concepita, la nazione oggi può essere il motore della storia e una forma rigeneratrice della democrazia. Come punto di equilibrio tra l’individualismo egoistico dei popoli e l’universalismo astratto. Campi cita l’esempio virtuoso dell’Europa, «dove l’esistenza di autonome comunità politico-culturali, in alcuni casi di antica tradizione storica, non ha affatto ostacolato i processi d’integrazione istituzionale e normativa che hanno portato, dopo molti passaggi, all’odierna Unione europea». Il sovranismo è l’opposto di tutto questo discorso. Perché - così si legge in questo volume agile e denso - esso «non spinge alla competizione, alla crescita o all’innovazione; suggerisce un ripiegamento in difesa di ciò che si ha e di ciò che si è. È una dottrina della decadenza, il nazionalismo dei popoli stanchi». Al suo opposto, il cosmopolitismo da salotto («La cosa migliore che dell’idea di nazione possiamo fare è abolirla», parola del saggista Marco Belpoliti e di larga parte dell’opinione pubblica mainstream) è quanto di più stantio si possa immaginare.
L’OPERAZIONE
E allora - la destra perché ora è al governo e probabilmente ci resterà ma anche i liberal-democratici e la sinistra senza paraocchi cerchino di farsene carico - l’operazione veramente patriottica è quella di agire affinché la nazione diventi un contenitore politico-simbolico capace di produrre integrazione sociale, spirito di cooperazione tra i membri della comunità e un senso del Noi condiviso. Non isolarsi e sentirsi invece, a pari diritti, parte di un insieme più grande; concepirsi come una comunità aggregante dentro la quale le differenze si possano ricomporre senza diventare distruttive per la convivenza; non attardarsi in vecchie concezioni identitarie ed entrare invece in una pratica funzionale e mobile del sentirsi nazione. Ecco la difficoltà del cimento ed è più arduo costruire un sentimento di lealtà patriottica di questo tipo piuttosto che esaltare, magari a vuoto, l’italianità.