la Repubblica, 6 febbraio 2023
Il suicidio e il dolore di chi resta
I suicidi, scrisse Pavese, sono omicidi timidi. Il loro insostenibile dolore viene però troncato di netto, quello di chi rimane no. La vita di chi resta è un viaggio allucinato di superstiti, vittime quasi allo stesso modo però ancora vive, ancora esposte al tormento. Nessuno ne parla mai. Quasi non esistono gruppi di ascolto e terapia per aiutarli ad affrontare sensi di colpa e vuoto, quella sensazione di spaesamento e distacco dal reale. Sono come sonnambuli, prigionieri di un perennealtrove. E s’intitola proprio così, La vita di chi resta, il memoir che Matteo B. Bianchi ha scritto per Mondadori quasi venticinque anni dopo la perdita di S., compagno amatissimo che un giorno decise d’impiccarsi proprio a casa di Matteo: i due si erano lasciati da qualche mese, dopo sette anni insieme. Nell’istante terribile del ritrovamento, un urlo muto e sbigottito, inizia il vagare di Matteo: «Io sono la vita con lui e la sua assurda morte». Il sopravvissuto non cambia appartamento, ricorda, si strazia, cerca di capire. Si chiede, come accade a quelli nella sua condizione, se fosse possibile intercettare i segnali, credere alle minacce di farla finita, comprendere come l’altra persona fosse davvero a un passo dal buio.
Il calvario si accompagna a una specie di mutazione fisica, è questo un romanzo molto corporeo e duro, sebbene romantico e fragile, la confessione di un inferno portatile. Il sopravvissuto si sente invecchiare pur essendo giovanissimo (S. aveva dieci anni in più), rallenta, ingrigisce, non ha più voglia di rispondere alla curiosità a volte morbosa della gente, dei vicini, dei colleghi, dei parenti: che fatica, soffrire. Così s’impara la strategia di risposte sempre uguali, in qualche modo bisogna pur fuggire: il dolore, scrive Bianchi, è un corso di recitazione.
La vitalità degli altri appare incomprensibile. «Sono uno zombie funzionale». La meccanica dei giorni fluisce, ma senza più niente dentro. E alla deriva non si va in una sola direzione, ci si sfracella ovunque. La sopravvivenza è undestino e non una vocazione, non c’è nulla di eroico nel mettere in fila i giorni, dopo. Il suicidio resta un grande tabù contemporaneo, e non esiste evoluzione culturale o sociale capace di pararne i colpi.
Matteo B. Bianchi proietta attorno a sé le tracce della persona perduta, non è immune dal «pensiero magico» (però per lui non dura un anno, come nel caso di Joan Didion, ma un quarto di secolo), si sente in apnea e cerca soccorso, come molti, nel sensitivo di turno, nello psichiatra, nel pranoterapeuta, nella paragnosta, ipotizza vie d’uscita che non esistono e intanto si documenta, diventando il cronista del proprio abisso. Scoprirà così che nel mondo si uccide una persona ogni quaranta secondi, 4 mila ogni anno soltanto in Italia. Il suicida ti trascina con sé.
Il cambiamento può essere devastante, persino ascoltare musica dà fastidio. Il massimo obiettivo è una breve tregua che non risolve, ma un poco anestetizza l’inconsolabile. Il quale si domanda: la persona vera ero io prima del suicidio di S., oppure sono quella di adesso? Ogni risposta è un sasso che cade nel vuoto, troppo lontano è il fondo per captarne l’eco. E non mancano, nel viaggio, le contraddizioni e le apparenti assurdità: il mio dolore vale più del tuo, la mia sofferenza ha cancellato ogni paura, perché cosa potrà mai accadermi di peggiore di questo?
La certezza di avere vissuto il momento più drammatico della propria esistenza cambia la prospettiva, il colore, il sapore e la densità di quanta ne rimane. Quel momento, Bianchi lo racconta in modo spietato, lui che avverte con la mano il corpo di S. che penzola appena oltre la porta d’ingresso senza bisogno di accendere la luce. Perché lo ha fatto proprio qui? Perché è tornato per infliggere questa pena? O forse era questo, l’unico suo luogo amato nell’universo? Quale altro, per un addio?
Il dolore, scrive Matteo, può essere arrogante, non è facile separarsene perché è il filo teso tra chi è andato via e chi resta: «Non volevo che sparisse, insieme a lui, anche la sofferenza per lui». Il senso di una fine è accettare le procedure che comporta, la burocrazia lugubre e straniante: a chi consegnare le cose sue, i suoi vestiti, la sua automobile? La psiche del sopravvissuto alza muri di protezione quando il benedetto oblio viene in soccorso, però non lo si può prevedere. Molto va perduto, nelle civiltà sepolte, e moltissimo resta nel disegno dell’arazzo strappato. Lo smarrimento della ragione è a un passo da noi, mentre si tenta non proprio di delineare un’idea di futuro ma almeno una sua vaga forma, un’ombra di desiderio. Intanto si affrontano i pregiudizi che offendono chi si suicida, e bisogna imparare a perdonarsi: non l’abbiamo capito, non l’abbiamo salvato ma siamo qui. Per Matteo sarà un nuovo amore, infine, a reclamare un senso, chiarendo e smontando il luogo comune: bisogna andare non avanti, ma attraverso.