la Repubblica, 6 febbraio 2023
Quale futuro per il Terzo Polo
Delle prospettive del Terzo Polo (la federazione in cui sono confluiti il partito di Calenda e quello di Renzi), si parla assai poco, e si sa ancora meno. Non è chiaro, ad esempio, se Azione e Italia Viva si fonderanno davvero in un partito unico. E ancor meno chiaro è se le differenze, stilistiche e politiche, fra Calenda e Renzi hanno carattere tattico o sono di natura strategica.
A giudicare dagli ultimi mesi, le loro battaglie non sembrano esattamente le stesse. Finora, Calenda si è mostrato incline a intavolare un dialogo con l’esecutivo soprattutto sulla politica economico-sociale, fino al punto di proporre alcune misure specifiche e ben dettagliate. Renzi è parso più interessato a usare il governo come alleato nella sua personale guerra contro le procure. Entrambi paiono guardare con comprensibile interesse all’elettorato di centro, un pacchetto di voti (circa il 10% dell’elettorato) attualmente calamitato soprattutto da Forza Italia. E sullo sfondo già si intravede il decisivo appuntamento delle Europee, che – fra poco più di un anno – riveleranno con precisione (grazie al proporzionale) quali sono i reali rapporti di forza fra i partiti. È lì che si vedrà se il progetto renziano di “fare come Macron” – che con una formazione politica nuova di zecca (En Marche) ha finito per svuotare il partito socialista – avrà possibilità di successo oppure no.
E tuttavia, forse, il destino del Terzo Polo sarà condizionato soprattutto dagli eventi di queste settimane. Eventi che paiono sospingerlo in direzioni diametralmente opposte.
Un primo evento su cui riflettere è la convergenza, per la prima volta da quando si è votato, di tutte le opposizioni sulla medesima richiesta: le dimissioni dei deputati Donzelli e Delmastro per la loro incauta, e ben poco istituzionale, gestione del caso Cospito.
Questo errore, commesso da due esponenti di peso del centro-destra, avvicina oggettivamente il Terzo Polo al Pd. E lo fa su un terreno – la giustizia – su cui, fino a ieri, sarebbe stato arduo immaginare qualsiasi incontro fra il garantismo estremo di Renzi e la rocciosa difesa degli interessi della magistratura da parte del Pd.
Fin qui le vicende degli ultimi giorni sembrano ricompattare l’opposizione, e allontanare la prospettiva di un dialogo del Terzo Polo con il governo. Ma, da un altro punto di vista, i processi che si stanno mettendo in moto in queste settimane spingono nella direzione contraria. Il riposizionamento a sinistra di Bonaccini, con la sua presa di distanza dalla stagione renziana (“togliere l’articolo 18 è stato un errore, lo ripristinerò”), può esercitare rilevanti effetti sul Terzo polo. Primo, perché elude l’aut-aut di Calenda (“scegliete fra riformismo e populismo”), e finisce per ripristinare la consueta formula del né-né: il nuovo Pd non sarà né populista come i Cinque Stelle, né risolutamente riformista come il Terzo Polo. Secondo, perché lo spostamento a sinistra di Bonaccini – peraltro comprensibilissimo in un partito la cui base pensa che il male sia stato il renzismo – apre notevoli prospettive di crescita a un partito liberal-democratico come quello vagheggiato da Renzi e Calenda, soprattutto se il vincitore fosse Bonaccini stesso. Una vittoria di quest’ultimo, infatti, renderebbe molto improbabile una scissione (quasi certa se vincesse Schlein), ma in compenso favorirebbe un discreto flusso di voti verso il Terzo Polo (attualmente fermo all’8%).
Ma l’effetto più importante è un altro ancora. Lo spostamento a sinistra del Pd, indispensabile per contendere ai Cinque Stelle i voti perduti negli ultimi mesi, renderà più problematica l’alleanza con il Terzo Polo, vanificando la fragile unità fra le tre opposizioni (Cinque Stelle, Pd, Terzo Polo), fortunosamente conquistata grazie al passo falso della maggioranza su Cospito.
A quel punto, per il partito di Renzi e Calenda potrebbero restare aperte solo due strade: prendere atto che gli unici interlocutori possibili sono le forze di governo (specie Forza Italia e Fratelli d’Italia), o darsi un’identità riformista forte, che sciolga i molti nodi irrisolti in tema di politica economica, mercato del lavoro, immigrazione, giustizia, riforme istituzionali.
Senza un profilo chiaro e riconoscibile, sarà difficile che, alle europee del 2024, gli elettori conferiscano al riformismo liberal-democratico i numeri che gli sono necessari per esercitare un ruolo significativo nella politica italiana.