Corriere della Sera, 5 febbraio 2023
Andrea Bocelli e i cavalli
Oltre 360 chilometri di via Francigena, da Roma fino a Lajatico, in Toscana, dove Andrea Bocelli è nato. L’ultima opera della voce italiana più famosa del mondo è un viaggio a cavallo, poi diventato anche un libro (In cammino, Sperling&Kupfer) e da poco una docu-serie Paramount+, The Journey con Andrea Bocelli.
Maestro, un viaggio fatto assieme a Veronica Berti, sua moglie, e nel corso del quale ha incontrato numerosi amici.
«All’inizio doveva essere poco più di una gita. Poi il progetto è cresciuto: dall’ipotesi di scattare qualche foto-ricordo del viaggio si è passati al coinvolgimento di un network statunitense e una troupe di circa 150 persone, sotto la guida di due cari amici registi, Paolo Sodi e Gaetano Morbioli. Ma la natura intima e fortemente spirituale di questa scommessa è rimasta integra».
Che cosa rappresenta per lei il cavallo?
«In sella ho trascorso alcuni tra i momenti più belli della mia vita, fin da quando, adolescente, mi fu donata la mia prima cavallina, Stella. Il cavallo sa essere un eccellente compagno di viaggio. Il cavallo è anche la mia bicicletta, la mia moto. Di più: è un essere vivente capace di esprimere affetto e complicità, un amico a suo modo. Ed a un amico penso, quando ricordo Giasir, un arabo che ho cavalcato per molti anni. Nel pellegrinaggio ho coinvolto alcuni tra i miei migliori andalusi».
Lei scrive che deve a Vittorio Sgarbi (tra i tanti amici che intervengono nel cammino) l’incontro con Veronica.
«Era il compleanno di Vittorio ed ero stato invitato alla sua festa. Pioveva a dirotto, confesso di esserci andato controvoglia. Veronica aveva ceduto alle preghiere di un’amica e l’aveva accompagnata. Pochi minuti dopo averla conosciuta, le ho dedicato una romanza, Occhi di fata. Lei sapeva distrattamente chi fossi. Ma la chimica ha parlato per noi. Le ho proposto un poco credibile passaggio in auto, se si può credere al fatto che Forte dei Marmi sia “sulla strada” verso le Marche, dove abitava. Poche ore dopo, nel cuore della notte, abbiamo passeggiato in riva al mare di Forte dei Marmi. Da allora non ci siamo più lasciati».
Tutto il viaggio è permeato dalla fede. Che lei ha più volte detto essere stata importantissima nella sua vita. È così?
«Potrei raccontare non uno ma molti eventi, apparentemente inspiegabili, di cui sono stato testimone talvolta diretto: espressioni tangibili della forza miracolosa della preghiera e della fede. Io credo ai miracoli, credo che il bene – e la sua meravigliosa energia – produca prodigi».
In questo racconto c’è anche il suo amore per i libri. Qualche esempio?
«Le Sacre Scritture, in primis. Poi le opere dei filosofi, dai colossi della Grecia antica al genio di Blaise Pascal fino a Schopenhauer. Fondamentali sono stati i giganti della letteratura, da Alessandro Manzoni a Lev Tolstoj. Ho amato molto Victor Hugo e il suo I Miserabili, con la straordinaria trattazione della lotta eterna tra bene e male; ho letto più volte libri di Antonio Fogazzaro, ma anche la poderosa opera della mistica italiana Maria Valtorta».
Nel libro e nella serie lei parla anche della sua gavetta e di quella volta che in un locale la rimandarono a casa perché non aveva un repertorio abbastanza consistente. È stata dura?
«Il successo è arrivato superati i 35 anni: si può ben immaginare quante siano state le occasioni perse, le porte in faccia. Soprattutto i primi anni 90 non hanno lesinato dispiaceri, ancor più brucianti poiché maturati a seguito di grandi speranze: in una parola distratta, in un rifiuto sbrigativo, un castello d’illusioni e speranze era spazzato via. La gente apprezzava il mio canto, era il mondo dello spettacolo a non considerarmi un “prodotto” commerciabile. Emblematico, il parere d’un potente personaggio romano che al tempo sovrintendeva una importante trasmissione televisiva. Gli avevo fatto avere, spendendo conoscenze e fatica, una serie di demo. Fu il suo addetto stampa a comunicarmi telefonicamente l’opinione maturata. Senza girarci intorno, disse: “È meglio che cambi mestiere”».
Lei ama la vita. Che cosa vorrebbe dire oggi a tanti ragazzi che cedono allo sconforto e provano persino a privarsi dell’esistenza?
«Nell’era della performance a tutti i costi, della competizione a scapito della cooperazione, del successo, della gioventù esibita, si sono radicati dei tabù, uno dei quali riguarda proprio la rimozione della morte. Gli antichi dicevano “ricordati che devi morire”, e così facendo festeggiavano la vita, sottolineavano la preziosità del tempo terreno, la sua bellezza e unicità. Un miracolo, appunto, la vita: da onorare ed amare, con gratitudine. Oggi, purtroppo, si finge che la nostra finitezza corporea non esista. I giovani e giovanissimi rischiano di non conoscere la priorità assoluta del valore della vita. Solo così posso spiegarmi certe morti assurde, frutto di sfide insane, di tragiche curiosità, oppure come reazione alle prime delusioni o dolori. Credo sia importante che ciascuno inneschi una rivoluzione interiore attraverso un nuovo sguardo sul mondo, attraverso la riflessione e l’ascolto della propria coscienza e la ricerca di valori solidi e reali».