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 2023  febbraio 05 Domenica calendario

Il soldato in fuga dalla Wagner

Mia madre è morta quando avevo 12 anni, non ho conosciuto mio padre. Sono cresciuto in un orfanotrofio di Tomsk, Siberia. Nel 2018 sono finito qualche mese in carcere ma non ne voglio parlare. Mi sono arruolato nella Wagner a Luglio 2022 perché tanto in Russia, quelli come me erano reclutati comunque e almeno i mercenari pagavano meglio: 240mila rubli (3500 euro) al mese, tre volte più dell’esercito regolare. Ho ucciso, ma mai i civili ». Andrey Medvedev, 26 anni, l’ex comandante del gruppo paramilitare russo Wagner fuggito in Norvegia il 13 gennaio scorso, si racconta davanti all’ennesima birra a un tavolo di Olivia, ristorante italiano nel nuovo quartiere di Tjuvholmen. Parla in russo senza guardare nessuno. Se incrocia uno sguardo, abbassa subito gli occhi. Copre e scopre il volto col cappuccio della felpa nera. Il volto infantile a tratti muta espressione, indurendosi fino a stravolgersi. Fra le mani stringe uno smartphone che consulta compulsivamente. Si alza spesso per andare a fumare.
A tradurre ci pensa Vladimir Osechkin, 41 anni l’attivista russo fondatore di Gulagu.net, l’ong anticorruzione che dal 2011 denuncia soprusi nelle carceri russe e altre gravi violazioni dei diritti umani. Dalla Francia dove vive in esilio e sotto protezione (le guardie del corpo lo affiancano pure mentre parla con Repubblica ) è stato lui ad organizzarne la fuga di Medvedev in Norvegia. Venerdì si sono abbracciati per la prima volta.
«Lo scorso dicembre ricevetti una mail dove si diceva che un tal Andrey era in pericolo» ricorda Osechkin. «Si trattava di un mercenario che aveva combattuto a Bakhmut col nome di battaglia di Dzhoga, comandando la prima squadra del 4° plotone del 7° distaccamento d’assalto. Finiti i 4 mesi d’ingaggio, a novembre aveva chiesto il congedo: salvo scoprire che il contratto era stato prolungato senza consenso. Era riuscito a rientrare in Russia, ma aveva presto capito che, come con la Mafia, liberarsi di Wagner non era facile. Quando mi misi in contatto con Andrey lo trovai agitatissimo. Aveva visto uccidere altri che non volevano più combattere e temeva di fare la stessa fine. Era a Tula, nella regione di Mosca, e voleva rifugiarsi in Georgia dove conosceva qualcuno. Gli consigliai l’Europa: “Puoi raccontare quel che hai visto. Puoi chiedere asilo”».
Lo convince a rilasciare una lunga video-testimonianza pubblicata sul sito di Gulagu dove Medvedev formula per la prima volta pubblicamente le sue accuse contro i metodi brutali del gruppo paramilitare finanziato da Yevgeny Viktorovich Prigozhin: l’imprenditore noto come “cuoco di Putin” per le sue imprese nella ristorazione. Le ripete anche ora: «Nel contratto c’è scritto che ti impegni a “proteggere siti strategicamente importanti e a raccogliere informazioni”» dice. «Invece ci hanno mandato allo sbaraglio fin dalla prima missione: partiti in trenta, tornammo vivi in quattro. So che è difficile credermi ma mi sono arruolato convinto che stavamo davvero proteggendo i russi del Donbass. In una settimana ho invece capito di essere finito in una situazione insensata. Non c’era tattica. Ci comunicavano la posizione dell’avversario dandoci ordini stupidi. Dovevamo pianificare tutto al momento». Per carità, ci tiene a dirlo: «Ho visto atti eroici da entrambe le parti». I problemi più gravi sono iniziati quando le fila del battaglione sono statoriempite di ex galeotti. Carcerati arruolatisi nei miliziani con la promessa di veder cancellata la loro pena: «Il loro arrivo ha segnato una svolta: siamo diventati tutti carne da macello. Mandati contro i carri armati col solo fucile in mano. E poi vessati al campo. Se qualcuno prendeva che so, un telefonino dal cadavere di un nemico e non lo consegnavano ai capi, gli spezzavano due dita della mano. E chi rifiutava di combattere veniva “terminato” davanti alle nuove reclute come forma di intimidazione da un’unità speciale chiamata Med». Un acronimo che non sa decifrare ma sospetta che a formare la squadra fossero ufficiali in pensione dell’Fsb, sì, insomma i servizi segreti: ex Kgb. «Durante quei mesi è accaduto una decina di volte. Io ho assistito solo a due, perché poi mi allontanavo. Quell’uccidere insensato dei nostri mi disgustava. Ammazzavano così pure agli ucraini che si arrendevano. Ne ricordo quattro a Klinovoe: non erano un pericolo, ma il Med li “terminò” lo stesso. Nessuno di noi interagiva con loro: si diceva che portava sfiga anche solo rivolgergli la parola». A quella “sfiga” Medvedev sente ancora di dover sfuggire. La sua paura più grande, è fare la stessa fine del soldato Yevgeny Nuzhin, galeotto volontario di 55 anni adibito all’umile compito di trasportare i cadaveri. Catturato o forse arresosi agli ucraini, era tornato nei ranghi dopo uno scambio di prigionieri. E qui massacrato a colpi di martello, la sua morte atroce ripresa da un video circolato poi sui canali Telegram di Wagner. «Lo hanno sepolto lì, come hanno fatto con tanti altri dichiarati dispersi solo per non pagare il risarcimento da 5 milioni di rubli promesso alle famiglie».
Nonostante si sia esposto «con un video visto un milione di volte che ha convinto molti a non unirsi a Wagner» come sottolinea Osechkin, il giovane Medvedev a dicembre rimanda per ben due volte la fuga verso la Finlandia pianificata con gli attivisti. Motivi personali: si è innamorato. Di una volontaria incaricata di portargli i soldi della fuga. Passa Natale e Capodanno con lei. Finché è la donna ad allontanarlo. «Per amore» dice il fondatore di Gulagu. «Era l’unico modo per spingerlo a partire». Lui, però, non sembra averlo capito: «Traditrice» sibila quando sente il suo nome.
L’ingresso in Norvegia, descritto come rocambolesco avviene la notte fra il 12 e il 13 gennaio: «Un amico mi ha lasciato nei pressi della città russa di Nikel. Indossavo una tuta bianca, per mimetizzarmi sulla neve e sul fiume ghiacciato. Avevo già scavalcato due recinzioni di filo spinato quanto ho sentito il latrare di cani e due proiettili sparati dal lato russo. Ho corso come mai prima per almeno 2 chilometri. Ho bussato ad una casa illuminata chiedendo aiuto nelle poche parole inglesi che so». All’1.58 di notte, lo preleva la polizia.
Entra in un nuovo mondo, cui è grato, ma con cui, per ora, ha un rapporto difficile. Le indagini su di lui sono in corso, ma gode di una relativa libertà, sorvegliato a distanza e dotato «di una app che basta premere per far correre la polizia». Ha chiesto asilo politico dicendosi disposto a testimoniare su crimini di guerra cui ha assistito («senza mai avere un ruolo attivo», sottolinea) e presto sarà interrogato da investigatori internazionali. Ma mal sopporta le misure di sicurezza imposte: tanto da essere già stato arrestato e condotto in un centro migranti proprio a causadella sua “insubordinazione”. «Lo hanno accolto, lo proteggono, sanno che la sua testimonianza è importante. Ma lo monitorano costantemente. Costretto a indossare un gps che ne controlla i movimenti e perfino il sonno, deve rispondere alle autorità e pure a certi medici che vegliano sulla sua salute mentale. Si sente soffocato. Non lo sopporta» dice ancora Osechkin, arrivato venerdì in Norvegia proprio per incontrarlo finalmente dal vivo, discutere del progetto di un libro da realizzare insieme intitolato “Anti-Wagner” dove dettagliare gli orrori compiuti dai miliziani. E soprattutto, provare a tranquillizzarlo. Ecco perché perprima cosa lo porta far shopping nell’H&M al secondo piano di Oslo City, il grande mall in centro, da cui escono un’ora dopo con sei buste piene di jeans, camicie, canottiere e pure un paio di converse. «Si lamentava di non avere niente, solo tute sportive. Gli ho comprato 480 euro di abiti e gliene ho messi in tasca altri 800. I mercenari gli avevano pagato solo i primi due mesi di servizio e quei soldi li ha finiti da un pezzo». Ma i problemi restano. «Sospetta di tutti, pure di chi gli sta dando una mano. Ha già revocato il suo avvocato Brynjulf Risnes più volte salvo poi richiamarlo, tanto che ormai ne ridiamo. Poco fa, dopo aver bevuto non so quante birre, mi ha fatto una scenata terribile, accusandomi di occuparmi di lui per mero interesse». Per fortuna è intervenuto un anziano: «Un ex militare norvegese lo ha riconosciuto, gli ha dato del coraggioso. Quel riconoscimento gli ha fatto bene. Ma non basta. Per gestire tanta aggressività assimilata, persone come lui avrebbero bisogno di un aiuto speciale. Bisognerà creare un organismo internazionale per curarli: perché è certo, ne arriveranno altri ». Nella lobby del Karl Johan Hotel dove prendono il caffè, Medvedev nel frattempo ritrova il sorriso: «Chiedo scusa per quel che ho fatto. Non ho mai ucciso civili. Sto iniziando a cercare Dio. Spero che la mia testimonianza porti alla condannare dei veri criminali».